Ci rendiamo conto di quello che abbiamo, quando lo perdiamo. L’Europa non è un’espressione geografica in primo luogo ma è l’Unione Europea, un insieme di popoli e storia e cultura comune. Siamo noi e ora siamo monchi, non è questione di simpatia o antipatia. L’Inghilterra qualche secolo fa era romana, targata SPQR. Non è roba da ripassare per maturandi ma è la nostra storia. Siamo noi.
Quando diciamo qualcosa e qualcuno lì entra più di noi stessi in quell’istante perché vi arriva con tutta la sua storia. Da oggi, chi entrerà nel dialogo in inglese che avverrà tra un francese e un lituano, tra un ungherese e un estone sarà qualcuno esterno a loro. Quest’assenza eserciterà un potere. Sto parlando di un rimpianto ma anche di un rancore. Se si parlerà di pace, di diritti, di libertà in Europa lo si farà con parole che hanno radici fuori da noi, esterne a noi. Avviene come in quei nuclei familiari che vivono coi soldi di mamma e papà, che non ce la fanno a stare in piedi da soli.
Diremo una cosa e scopriremo che quella cosa che abbiamo detto non è più quella che abbiamo detto perché, nel frattempo, gli inglesi hanno deciso che vuol dire altro, che non si dice, che era così ma ora invece, guarda un po’, è cambiato. Il nostro inglese, visto che al di là dei nostri documenti, si continuerà a parlare inglese, sarà una sorta di esperanto, una lingua a tavolino. Questo perché il popolo la cui lingua è la lingua ufficiosa-ufficiale dell’Europa se ne va dall’Europa.
Siamo ufficialmente un’Unione non unita. Siamo culturalmente dei ripudiati, degli snobbati. Non arriviamo neppure alla dignità di orfani. Da oggi, manca quel pezzo la cui lingua esprime i nostri affari, le nostre vacanze, i nostri approfondimenti culturali, gli studi targati Erasmus dei nostri figli. Se siamo un’unione, si resta uniti. Non è uniti che si vince? Sarà, forse, che abbiamo deciso di perdere. Così pare.
Di Don Mauro Leonardi
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