Al di là dei numeri, chi attacca la Chiesa sul suo impegno nell’accoglienza dei profughi ignora, o forse banalizza, l’esistenza dei vincoli normativi che impediscono alle diocesi e agli istituti religiosi di fare ancora più di quello che già stanno facendo: «Nella maggior parte dei casi i seminari sono edifici molto vecchi che non riescono a ottenere le autorizzazioni previste dalle normative regionali – ha spiegato Oliviero Forti, responsabile immigrazione di Caritas italiana, intervistato anche da Redattore Sociale –.
La conseguenza è che queste strutture non si possono utilizzare per l’accoglienza dei profughi perché non rispondono ai criteri di sicurezza e di igiene stabiliti proprio dalle regioni». Forti dà voce a un tema discusso proprio nell’ultimo consiglio nazionale di Caritas, e cita anche la sua esperienza personale: «Mesi fa abbiamo mandato un elenco di strutture potenzialmente disponibili al ministero dell’Interno, ma per quasi tutte è stato impossibile avere l’accreditamento, c’era sempre un problema: la porta non a norma, il bagno non regolare, dimensioni inadeguate». Gli interventi richiesti per mettere le strutture in regola sono generalmente troppo costosi, o non convenienti sul breve periodo. «Per questo il più delle volte, come Caritas, ci troviamo “costretti” a organizzare un’accoglienza diffusa sul territorio, affittando appartamenti e altri locali e ovviamente aprendo tutte le nostre strutture che sono regolari». Se, invece, si affrontasse «non l’emergenza che non c’è, ma la fatica dell’accoglienza », insieme, e lasciando fuori le sterili polemiche politiche, confrontandosi con le istituzioni «con un minimo di programmazione, alcune rigidità normative e burocratiche si potrebbero superare, trovando forme adeguate che garantiscano sia la sicurezza e l’igiene sia un livello dignitoso di accoglienza quotidiana. Ma bisogna farlo insieme, con una strategia comune».
L’accoglienza però non è solo una questione di strutture, ma di organizzazione più generale. «È necessaria la programmazione: – ha proseguito il responsabile immigrazione di Caritas Italiana –: se si riuscisse a fare un piano di respiro medio-lungo, si potrebbero prima individuare le strutture, poi definire i criteri condivisi per la loro messa a disposizione e poi organizzare la necessaria formazione e gli altri aspetti logistici. Così come gli spazi fisici, anche il personale della Chiesa e del volontariato sui territori non sempre è immediatamente pronto a fronteggiare questo lavoro: ci sono conoscenze, esperienze e modalità operative da acquisire. L’accoglienza non si improvvisa, né dal punto di vista strutturale né da quello umano».
L’accoglienza non ha colore, né nazionalità per Caritas italiana che, da sempre, è al fianco di chi è più debole e vive in stato di indigenza. Nei primi 6 mesi del 2014 45.819 persone si sono rivolti alla rete dei centri d’ascolto (il 43% al Nord, il 30,9% al Sud e nelle Isole e il 26,1% al Centro).
Su 100 assistiti 46 risultano italiani (esattamente 46,5%), quindi quasi uno su due. Solo un anno fa, nel primo semestre del 2013, la percentuale si attestava al 31,1%, negli anni precedenti su valori ancora inferiori.
La situazione, tuttavia, è diversificata nelle diverse aree del Paese. Se nel Nord il peso degli italiani può dirsi ancora in linea con il valore del 2013, nel Centro e nel Mezzogiorno si registra un vistoso incremento. In particolare, nel Sud e nelle Isole la percentuale si attesta oggi al 72,5%; prevale la distribuzione di viveri, di vestiario e i servizi mensa (56,3%). La seconda voce di intervento riguarda il pagamento bollette, contributi per le spese di alloggio, acquisto di generi alimentari, sostegno per le spese sanitarie.
Redazione Papaboys (Fonte www.avvenire.it/Ilaria Solaini)
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