Entra nel vivo la campagna “Il diritto di rimanere nella propria terra” promossa dalla Conferenza episcopale italiana, che vede impegnate la Fondazione Missio, Caritas italiana e la Focsiv in un’iniziativa comune. Attraverso l’alfabetizzazione, corsi professionali di cucito, piccoli atelier di preparazione del sapone e corsi mirati al rispetto delle misure d’igiene sull’uso degli alimenti, 140 di queste ragazze verranno accompagnate dalle suore in un percorso di crescita e sviluppo delle proprie potenzialità.
“Fanno decine di chilometri a piedi per venire dai loro villaggi nell’entroterra occidentale del Mali fino alla cittadina di Sevarè alla periferia di Moptì. Sono ancora delle ragazzine ma le famiglie le mandano a fare i lavori domestici per guadagnare qualcosa da mandare a casa”. Così suor Erminia Apostoli, delle Suore Operaie della Santa Casa di Nazareth, aveva raccontato della missione in cui si trova nel villaggio di Can, in Mali. Queste bambine, dieci anni appena, sono destinate dalla povertà a fare le aides ménagères, (domestiche, ndr), condannate all’analfabetismo dall’isolamento dell’etnia dei Dogon a cui appartengono.
A loro è dedicata una delle micro-realizzazioni giubilari della Campagna della Cei “Il diritto di rimanere nella propria terra”, che vede impegnate la Fondazione Missio, Caritas italiana e la Focsiv in un’iniziativa comune, nata in risposta al punto 7 del Vademecum del Consiglio permanete della Conferenza episcopale italiana.
Attraverso l’alfabetizzazione, corsi professionali di cucito, piccoli atelier di preparazione del sapone e corsi mirati al rispetto delle misure d’igiene sull’uso degli alimenti, 140 di queste ragazze verranno accompagnate dalle suore in un percorso di crescita e sviluppo delle proprie potenzialità.
Le “Indicazioni alle diocesi italiane circa l’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati” chiedono di non trascurare i Paesi di origine dei migranti e, anzi, di dedicare ad essi tutta l’attenzione possibile per incoraggiare chi vive in condizioni precarie, ma non di estrema emergenza, a rimanere nella propria terra.
È pur vero che il Mali è un Paese borderline: l’attacco del novembre dello scorso anno all’Hotel Radisson di Bamako, dove un gruppo di fondamentalisti islamici ha ucciso 21 persone, esprime tutta la tensione vissuta in questo Paese dell’Africa occidentale, senza sbocchi sul mare. L’ex colonia francese occupa una delle ultime posizioni (174ª) della graduatoria dell’Indice di sviluppo umano delle Nazioni Unite e dopo il colpo di Stato del 2012 è stata continuamente soggetta a violenze e tensioni che rendono ancora più precarie le condizioni di vita della maggior parte della popolazione. La mortalità infantile del 109‰, la speranza di vita ferma a 55 anni, e il tasso di analfabetismo al 71% ne fanno un Paese con pochissime chance di ripresa dal punto di vista dello sviluppo. A meno che, appunto, non si concentri l’attenzione su piccoli e mirati interventi di sviluppo umano.
Redazione Papaboys (Fonte agensir.it)
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