Angelo Pedone, sottotenente in congedo del corpo militare della Croce Rossa, da vent’anni è infermiere al policlinico Agostino Gemelli di Roma con cui ha preso parte a varie missioni dall’Afghanistan a Mare Nostrum; quando sono arrivate le notizie dell’emergenza Covid-19 in Nord Italia si è reso subito disponibile. Richiamato in servizio, ha lasciato a Roma moglie e figli ed è stato destinato all’ospedale Giovanni XXIII a Bergamo, nei giorni più duri per il contagio.
«La lunga fila di ambulanze in attesa ore davanti al Pronto Soccorso, che non aveva spazio per accogliere altre persone. L’ossigeno che a volte scarseggiava, perché le chiamate erano continue e non c’era tempo di prendere nuove bombole prima di ripartire. Le luci deboli nei corridoi, le finestre chiuse, il caldo tremendo. Non dimentico gli sguardi terrorizzati dei pazienti e quelli degli infermieri, che dopo tanti giorni e decessi, apparivano rassegnati ma continuavano a lavorare senza sosta ».
«Ho fatto vari corsi sull’emergenza e assistenza in operazioni a torace aperto, dove la probabilità di morte è alta, ma niente è paragonabile a ciò che ho visto lì – racconta, con la voce rotta dall’emozione – Il turno iniziale è stato il più difficile. Era di notte. La prima settimana è stata drammatica, eravamo tre per trenta pazienti. La responsabilità era enorme. Toglievi il casco per dare da bere o un farmaco al malato e questo non respirava, dovevi essere certo di fare tutto velocemente e bene. Arrivavano alcuni soggetti gravissimi, li guardavi e capivi che non avevano speranze. Era tremendo. In media, morivano due persone a turno. Quando finito il lavoro, incontravi i colleghi, chiedevi solo: Quanti morti da te?. E al turno dopo, domandavi dove fossero malati che non vedevi. All’inizio, lo confesso, mi sono chiesto: perché sono qui?».
I ricoveri aumentavano costantemente. «Si aprivano ogni giorno nuovi reparti, non bastavano mai. Tutti gli affetti da Covid stavano insieme, anche i pazienti psichiatrici. Per noi, tenere le corrette distanze con questi ultimi era impossibile. Il corridoio era diviso in due, da una parte la zona che dicevamo sporca, dove si trovavano le stanze dei ricoverati e ci muovevamo noi infermieri, dall’altra la pulita, dove si preparavano farmaci». Per varcare la linea dovevi usare vari dispositivi di protezione: c’erano ma non bastavano. «Le tute erano finite, usavamo dei camici spessi e altri più leggeri ma di un materiale che teneva però un caldo infernale. Ti disidratavi ma non potevi bere. Per farlo saresti dovuto uscire, togliendo il camice, ma quello è il momento in cui si rischia di infettarsi. Lo stress era troppo. Così, per dieci ore, non bevevi, non andavi in bagno, non uscivi a prendere aria». Non c’era modo di parlare con le persone, di pensare ai loro parenti. «I ricoverati sapevano cosa li attendeva, conoscevano tutti i passaggi, c’era paura nei loro occhi. Non c’era tempo neppure per chiedere chi erano. Era terribile. Persone forti, che fino a qualche giorno prima stavano bene, ormai erano annullate. Molte morivano. Non sono mai venuti preti a dare benedizioni nei miei turni, erano pochi, dovevano dividersi tra tanti. Siamo dovuti diventare esperti nella gestione delle salme, tutto andava fatto velocemente».
Quando le cose sono migliorate, alla sua seconda settimana, si è riusciti ad aiutare alcuni pazienti a chiamare i familiari. «Nei primi giorni non era concepibile data l’emergenza. Ho sentito qualche telefonata, la dinamica era pressoché sempre la stessa. I parenti cercavano di fare forza al ricoverato e questo faceva lo stesso con loro. Ricordo un uomo, avrà avuto la mia età, all’arrivo era gravissimo, pensavo che non lo avrei più rivisto. Sotto il casco per respirare, cercava di salutare, guardava e ascoltava tutto. Quando l’ho rivisto, solo con la mascherina, è stata un’emozione».
Intanto, pensava pure alla propria salute. «La paura c’era sempre, anche in hotel, guardavi il cuscino e ti domandavi come fosse stato pulito, se la cameriera fosse stata in altre stanze e simili». Nonostante la lunga esperienza, il servizio a Bergamo è stata una prova dura. «Sono preparato a situazioni drammatiche – conclude – come i colleghi sul posto, ma nessuno si aspettava una cosa simile. Da fuori si capisce il 30% della situazione. Quando questo sarà finito, bisognerà rivedere tutto, strappare molti libri. Serve tanta ricerca». Ora Pedone è tornato a casa. «Il 23 riprenderò servizio al Gemelli. Se ci sarà bisogno, comunque ripartirò».
Fonte ilmessaggero.it
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