La proclamazione di Gesù “Signore” è «la porta che immette alla conoscenza del Cristo risorto e vivo»: un Cristo che non è più «personaggio, ma persona; non più un insieme di tesi, di dogmi e di corrispettive eresie, non più solo oggetto di culto e di memoria, fosse pure quella liturgica ed eucaristica, ma persona vivente e sempre presente nello Spirito». Lo ha affermato il cappuccino Raniero Cantalamessa, predicatore della Casa Pontificia, che ha tenuto la prima predica di quaresima venerdì mattina, 10 febbraio, nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo apostolico.
Sviluppando il tema scelto per le meditazioni di quest’anno — «Nessuno può dire: “Gesù è il Signore!” se non nello Spirito Santo (1 Corinzi 15, 3). Il Paraclito ci introduce alla “piena verità” su Gesù Cristo e sul suo mistero pasquale» — il religioso ha approfondito il senso della proclamazione di Gesù “Signore”, che oggi assume un’attualità particolare soprattutto in risposta a quanti credono che «sia possibile, e anzi necessario, rinunciare alla tesi della unicità di Cristo, per favorire il dialogo tra le varie religioni». In realtà, ha spiegato Cantalamessa
, proclamare Gesù “Signore” significa «proprio proclamare la sua unicità». Non a caso, nel secondo articolo del Credo si legge: «Credo in un solo Signore Gesù Cristo». D’altra parte, ha fatto notare Cantalamessa, il coraggio che occorre oggi «per credere che Gesù è “l’unico Signore” è nulla» in confronto a quello che occorreva nei primi anni del cristianesimo. Tuttavia, ha aggiunto, il “potere dello Spirito” non è concesso «se non a chi proclama Gesù Signore, in questa accezione forte delle origini: è un dato di esperienza». Infatti, «solo dopo che un teologo o un annunciatore ha deciso di scommettere tutto su Gesù Cristo “unico Signore”, ma proprio tutto, anche a costo di essere “scacciato dalla sinagoga”, solo allora fa l’esperienza di una certezza e di un potere nuovi nella sua vita».
Così si continua a parlare di Gesù “Signore”; ma questo, ha specificato Cantalamessa, «è diventato un nome di Cristo come gli altri, anzi più spesso uno degli elementi del nome completo di Cristo: “Nostro Signore Gesù Cristo”». Solo più tardi si mette in moto un «cambiamento» — visibile anche nel linguaggio delle traduzioni delle Scritture — attraverso il quale il riferimento al “Signore” non si riduce più alla semplice pronuncia di un nome, ma diventa «una professione di fede».
Protagonista di questo «salto di qualità» è lo Spirito Santo. È lui che anima la conoscenza spirituale ed esistenziale di Gesù come Signore. E così facendo, ha precisato il predicatore, non «induce a trascurare la conoscenza oggettiva, dogmatica ed ecclesiale di Cristo, ma la rivitalizza». Grazie allo Spirito Santo infatti — secondo quanto afferma sant’Ireneo — la verità rivelata «come un deposito prezioso contenuto in un vaso di valore, ringiovanisce sempre e fa ringiovanire anche il vaso che la contiene».
Parlando del ruolo dello Spirito nella conoscenza di Cristo, il religioso ha anche rilevato che «si delineano già nell’ambito del Nuovo testamento, due tipi di conoscenza di Cristo, o due ambiti in cui lo Spirito svolge la sua azione». C’è una conoscenza «oggettiva di Cristo, del suo essere, del suo mistero e della sua persona»; e c’è una conoscenza «più soggettiva, funzionale e interiore che ha per oggetto quello che Gesù “fa per me”, più che quello che egli “è in sé”». In Paolo prevale ancora «l’interesse per la conoscenza di ciò che Cristo ha fatto per noi, per l’operato di Cristo e in particolare il suo mistero pasquale». In Giovanni prevale ormai «l’interesse per ciò che Cristo è: il logos eterno che era presso Dio ed è venuto nella carne, che è “una cosa sola con il Padre”». Per Giovanni, dunque, Cristo è soprattutto «il rivelatore; per Paolo è soprattutto il salvatore».
L’Osservatore romano – Edizione 11 Marzo 2017
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