Nell’inondazione di termini inglesi cui siamo sempre più sottoposti, un’espressione che è diventata ormai comune è quella di «peacekeeping». Che cosa voglia dire in concreto ognuno può deciderlo a partire da quello che vede, anche se il contesto pesantemente militare del suo uso non fa proprio d’istinto pensare alla pace. Etimologicamente (e l’etimologia è la verginità originaria delle parole) la parola significa «custodia della pace», la pace essendo l’oggetto del verbo «keep» che indica «conservare, mantenere, custodire», appunto. L’espressione mi è tornata alla mente perché, discorrendo di relazione, la citazione da Giuliana di Norwich utilizzata la volta scorsa, metteva proprio questo verbo come primo di una serie di quattro in cui la mistica inglese racchiudeva l’operare del circuito relazionale.
Come noccioline sul palmo della mano
È bene dunque partire da qui, anche perché tale verbo è peculiare dell’azione stessa di Dio nei confronti della creazione. Di fronte al mondo, che nella visione della mistica ha la consistenza di una nocciolina che sta sul palmo di una mano, Dio si rivela come «creatore, custode, amante», ed è grazie a questa triplice azione che un mondo così piccolo «dura e durerà sempre, perché Dio l’ama» (Libro delle rivelazioni, cap. 5). Letta in prospettiva trinitaria, la qualifica della custodia si applica alla seconda persona, ed perfettamente in tema con le parole del discorso d’addio, in cui Gesù dichiara di aver «custodito» quelli che il Padre gli aveva affidato, e che egli, partendo, raccomanda alla custodia del Padre (cfr. Gv 17,11-12.15). Appare anche chiaro in Giuliana che l’azione del custodire è una forma dell’amore, e dunque non si può fare alcuna riflessione seria sulla vita di relazione se non si esplora il senso di questo verbo, cruciale proprio in rapporto alla «durata», che è, come sappiamo, la croce e la benedizione di ogni rapporto interpersonale. Torna qui opportuna un’altra citazione di Giuliana, dove ricorre di nuovo l’immagine della custodia: «Io vidi che Dio è la nostra vera pace; ed egli è il nostro sicuro custode quando siamo nella «non-pace»; e opera continuamente per portarci in una pace infinita» (cap. 49). E siamo dunque alla lettura più seria e più profonda dell’espressione «peacekeeping» da cui si era partiti, essendoci un’evidente interconnessione tra custodia, durata, pace.
Custodi, non proprietari
Volendo approfondire ulteriormente il senso del custodire, mi sembra che il primo aspetto che balza agli occhi è che si custodisce una cosa di cui non si ha la proprietà. Il concetto di proprietà implica sempre, in una certa misura (e a volte in misure allucinanti!), l’idea che si possa usare in qualsiasi modo a proprio esclusivo vantaggio la cosa di cui si è padroni. Questo vale anche, ahimè, per le persone, che si rischia di trattare come cose da cui ci si attende solo un utile o comunque un servizio. La dimensione del custodire stabilisce dunque da subito una distanza di rispetto da non valicare, ed è in qualche modo un correttivo messo all’inizio di un cammino che potrebbe cominciare in modo del tutto opposto. La relazione nasce infatti da un bisogno, da una deficienza di essere che attende di essere completata, da una ferita che si vorrebbe far rimarginare il più rapidamente possibile. Ogni relazione è chiamata fin da quando nasce a misurarsi sull’istinto di possesso che si intreccia con un grappolo di aspettative e di desideri che sarebbe pericoloso non sorvegliare. In questa luce, credo, è possibile ricuperare il senso ricco e profondo di una virtù che sembra subire, da un po’ di tempo, una sorta di ostracismo nel lessico cristiano: la castità. Ha scritto in proposito con molta lucidità il card. Martini: «La castità è educazione e allenamento a superare ogni mentalità di tipo proprietario e padronale nei confronti della propria e della altrui persona. Si oppone frontalmente a quella mentalità utilitaristica e narcisistica che tende a usare e ad abusare di ogni cosa quasi fossimo arbitri supremi di noi stessi, del nostro corpo e delle nostre pulsioni, come pure delle persone e del mondo circostante. La si può considerare come una forma esigente e quotidiana di «povertà» evangelica. Di fatto questa disciplina si estende anche al cibo e alle cose voluttuarie, che caratterizzano la nostra civiltà consumistica» (Itinerari educativi, 1988, p. 99).
Il «prendersi cura»
Il rispetto è solo la prima parte, quasi in negativo, dell’atteggiamento del cuore che prende forma nel custodire. L’altra parte, decisamente in positivo (ma una senza l’altra non sta), è quella che potremmo tradurre nel «prendersi cura». Nulla di nuovo neanche qui, se si pensa alla frase «I care» diventata un motto, e che traduce esattamente la presa di coscienza di una responsabilità nei confronti di qualcosa, o ancora più di qualcuno, che mi è affidato perché lo custodisca. Si è fatto un gran chiasso di recente sul mutamento della formula del matrimonio, passata da «Io prendo te» a «Io accolgo te». Non so quanto sia stato approfondito sulla grande stampa il senso del cambiamento. Che alla fine è solo una esplicitazione, probabilmente necessaria, di ciò che è, almeno in parte, già implicito nel prendere. Non è infatti il gesto in sé che conta, perché tutto dipende dalla sensibilità delle mani che «prendono», e che possono essere volgarmente grifagne, o umilmente accoglienti. Nella sua teologia per immagini Giuliana di Norwich propone con icastica semplicità questo contrasto radicale: «le dolci mani graziose della nostra Madre Gesù sono pronte e diligenti nel prendersi cura di noi» (cap. 61); mentre il demonio, l’anti-Dio, «non aveva mani dalla forma normale, ma con le sue zampe mi afferrava per la gola, e voleva impedirmi di respirare, e uccidermi» (cap. 67).
«Io sono responsabile della mia rosa»
Custodisco dunque una cosa che non è mia, ma mi è stata affidata, e la custodisco perché preziosa agli occhi di Dio, e dell’affidamento dovrò rendere conto. A questo punto, oltre al rispetto e al prendersi cura, potremmo aggiungere una terza parola che completa il lessico della custodia: «responsabilità». In quel magnifico libretto che costituisce a suo modo una filosofia-teologia della relazione e che è Il piccolo principe di Saint-Exupéry, qualcuno potrà ritrovare le tappe del percorso qui delineato: dall’avvicinarsi rispettoso tra il principino e la volpe, collocato sotto l’affascinate metafora dell’addomesticamento, al prendersi cura della rosa contro la voracità degli animali e le correnti d’aria, all’affermazione riassuntiva «Io sono responsabile della mia rosa». È vero che quando si risale agli elementi primordiali dell’esperienza li si ritrova dappertutto: nella Bibbia, nella letteratura mistica, e perfino nella narrativa (apparentemente) per bambini.
Con quell’amore per le etimologie che caratterizzava i medievali, che in questo esercizio lasciavano spesso libero corso alla fantasia (ma era bella questa voglia di trovare ovunque segnali del mistero delle cose!), Isidoro di Siviglia spiega il latino amicus come una contrazione di «animi custos», e Aelredo di Rievaulx, riprendendo Isidoro, commenta: «Dico che l’amico è come un custode dell’amore, o, come ha detto qualcuno, ‘un custode dell’animo stesso’, poiché l’amico, come lo intendo io, deve essere il custode dell’amore vicendevole, o meglio del mio stesso animo: deve conservare in un silenzio fedele tutti i segreti del mio animo; curare e tollerare, secondo le sue forze, quanto vi trova di imperfetto; gioire quando l’amico gioisce, soffrire quando soffre; sentire come proprio tutto ciò che è dell’amico» (Amicizia spirituale 1,20). L’esito è paradossalmente fantastico: è proprio la «custodia», con quel tanto di rispetto della distanza che comporta, insieme al prendersi cura responsabile, a produrre la più solida sintonia, quella che tutti sogniamo, ma alla quale sarebbe futile pretendere di giungere lungo la strada del possesso padronale. di Domenico Pezzini
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