Mentre si avvicina il quarto anniversario della rivoluzione del 25 marzo 2011 iniziata (per quanto oggi si tenda a dimenticarlo) come pacifica protesta contro il dittatore Assad, la Siria è sempre più sinonimo di caos, violenza anarchica, macerie a perdita d’occhio su cui si erge il temibile Califfato. Se siamo tutti troppo poco familiari con il fatto che a due ore di volo da Roma si consumi la più grande crisi umanitaria dalla II guerra mondiale (220mila morti, 7,6 milioni sfollati, 3,8 milioni rifugiati), siamo invece familiarissimi con lo Stato Islamico (o Daesh), con il più feroce degli eredi di al Qaeda chiamato Abu Bakr al Baghdadi, con i lupi solitari in fuga dell’Europa «empia» per arruolarsi tra le fila dei folli di Dio (circa 5 mila), con le tute arancioni stile Guantanamo indossate dai prigionieri prima di essere sgozzati, con la fino a poco fa sconosciuta città di Raqqa infelicemente investita del ruolo di capitale del Califfato. Ma di cosa parliamo quando parliamo di Califfato?
Alcune ottime risposte sono contenute nel volume appena pubblicato dal think tank ISPI e intitolato «Twitter e jihad: la comunicazione dell’Isis», un rapporto in cui Paolo Magri e Monica Maggioni (più Paolo Branca, Andrea Plebani, Paolo Maggiolini, Marco Lombardi, Marco Arnaboldi, Lorenzo Vidino e Harith Hasan al–Qarawee) raccontano la genesi, l’evoluzione e i modernissimi modelli comunicativi della nuova spaventosa promessa di disordine mondiale.
I libri vanno letti e noi non vi racconteremo cosa contiene «Twitter e jihad: la comunicazione dell’Isis». Ma ci sono alcuni punti che possono essere isolati per orientarsi in una realtà che è assai meno semplice di quanto i suoi video pseudo-hollywoodiani vogliano comunicare (per spaventare l’occidente e per reclutarne i figli più inquieti).
1. UN MITO CHIAMATO CALIFFATO
Tutto inizia ufficialmente il 29 giugno 2014 quando dopo l’ingresso delle milizie dello Stato Islamico a Mosul al Baghdadi pronuncia il proprio discorso d’insediamento e si proclama Califfo. In realtà il Califfato non è un’invenzione estemporanea ma un mito inossidabile dell’Islam che si riferisce all’eredità del Profeta Maometto e alla continuità della umma (la grande famiglia islamica), entrambe definitivamente perdute con la fine dell’impero ottomano (ma in realtà già prima). Il Califfato dunque, si rivolge teoricamente a qualsiasi musulmano.
2. TUTTA COLPA DELLE PRIMAVERE ARABE?
Sebbene si tenda a pensare che siano state le rivolte del 2011 ad accendere la miccia della rivoluzione jihadista, i ragazzi che 4 anni fa scesero in piazza al Cairo, Tunisi, Sana’a, Manama, Bengasi e faticosamente nelle principali città siriane, rappresentano il nemico interno (all’islam) avversato dal Califfato quanto e più dell’empio occidente. Sebbene infatti quei ragazzi non si proclamassero “laici” alla maniera occidentale, il loro chiedere democrazia e definirsi “civili” (in arabo
“madaniyya” unito a “dawla”, cioè “stato”) si contrapponeva a un potere tanto “dittatoriale” quanto “clericale” o “religioso” in senso confessionale. Ossia si contrapponeva a quel «cesaropapismo» di cui il Califfato avrebbe poi fatto il proprio scheletro.
3. SONO IN GUERRA DUNQUE SONO
Lo Stato Islamico, come le formazioni jihadiste che lo precedono, nasce contrapponendosi a un nemico (i crociati, i cristiani, gli ebrei, gli infedeli). Fin qui nulla di diverso da al Qaeda. Ma laddove il network fondato da Osama bin Laden si concentrava sul nemico lontano (Usa) il Califfato dà l’assalto al nemico vicino (a cominciare da sciiti e sunniti “devianti”). L’obiettivo più circoscritto obbliga i nuovi terroristi a una nuova narrativa e richiede nuovi strumenti comunicativi (si ritiene che ai vertici dell’organizzazione ci sia l’esperto multimediale Ahmad Abu Samra, genio dell’informatica cresciuto in Massachusetts e partito un paio d’anni fa per la Siria). Altra differenza rispetto ad al Qaeda (con la quale molti studiosi ritengono ci sia ormai una guerra per la leadership del terrore) è la creazione di uno stato vero e proprio, che è un luogo fisico dove i “volontari” hanno la chance di stabilirsi e un luogo simbolico di applicazione senza eguali della sharia.
4. TRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE
Lo Stato Islamico non nasce dal nulla. Sin dal primissimo messaggio d’insediamento di al Bagdhadi i riferimenti sono chiari, dal passato al futuro: nel video dell’estate 2014 si cita “La fine di Sykes-Picot” (i patti franco-britannici del 1916 con cui Londra e Parigi si spartirono il Medio Oriente dopo la I guerra mondiale) e si dà la parola (in inglese) a tal Abu Safiyya, 25enne norvegese di origine cilena convertitosi all’islam radicale nelle periferie di Oslo e capostipite di quei lupi solitari che avremmo imparato a conoscere con paura nei messi successivi. Anche la prima esecuzione, quella del giornalista Usa James Foley in tuta arancione, rimanda metaforicamente a quella di Nick Berg sgozzato nel 2004 da al Zarqawi .
5. BRAND E MARKETING
Lo Stato Islamico raccoglie e perfeziona la vocazione al marketing degli jihadisti di al Zarqawi che già dal 2007 firmavano i loro orrori con loghi ad hoc. In realtà l’attività pubblicistica dei folli di Dio risale al 2005, quando nasce il bimestrale degli jihadisti iracheni «al-Fursan». Seguono poi il settimanale «Sada al-Rafidayn» pubblicato dal «Global Islamic Media Front», il sofisticato e patinato «Inspire» (rivolto già a un pubblico globale) e il recente «Dabiq» (in più lingue) con reportage, analisi, editoriali (l’ultimo numero pubblicato l’11 febbraio 2015 è tutto sulla rivendicazione dell’attacco a «Charlie Hebdo» e ha un’intervista con la moglie di Coulibaly ). Lo Stato Islamico, in particolare, produce anche brochure per promuoversi e sorta di depliant tipo «Islamic State News» con le vittorie militari e gli aiuti in favore della popolazione.
6. A-SOCIAL NETWORK
Il modello comunicativo dello Stato Islamico attinge a piene mani dai videogiochi e si serve abbondantemente dei social network (in funzione a-social…). Pare che dallo scorso autunno siano stati creati circa 45 mila account a favore dello Stato Islamico più un tentativo (abortito) di una sorta di Facebook jihadista. La comunicazione degli uomini di al Baghdadi passa velocemente dai media tradizionali (vedi il reporter-ostaggio britannico John Cantlie che oggi “lavora” per i suoi carnefici facendo l’inviato speciale nella contro-narrativa jihadista) ai nuovi media, creando un cortocircuito che mette in difficoltà l’occidente (dargli voce/spazio oppure no? Recentemente la RaiNews24 diretta da Monica Maggioni ha deciso di non trasmettere più i video dell’orrore).
Fonte. La Stampa
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