Parla il cantautore che con “Argentovivo” ha vinto a Sanremo il premio della critica e quello per il miglior testo. Da allora continua a ricevere lettere di genitori e ragazzi che sono stati colpiti dalla canzone e sta pensando di raccoglierle nel suo sito La voce del megafono.
«Avete preso un bambino che non stava mai fermo e l’avete messo da solo davanti a uno schermo», canta Daniele Silvestri in Argentovivo, la canzone con cui ha vinto il premio della critica e quello per il miglior testo a Sanremo. «Lo ammetto. Lo faccio anch’io con i miei figli», confessa il cantautore. «A volte è quasi impossibile farne a meno. Anche a Sanremo, preso tra mille cose, mi sono reso conto che mio figlio più piccolo aveva passato troppo tempo con un giochino sul cellulare. È comodo, ma è anche molto rischioso, soprattutto se è l’unico modo con cui un bambino o un ragazzino trascorre il suo tempo».
Al tuo debutto al Festival, nel 1995, il protagonista di L’uomo col megafono urlava la sua rabbia, la sua solitudine. Come l’adolescente di Argentovivo…
«C’è una grandissima differenza. L’uomo sentiva che attorno a sé c’era poco interesse verso temi per lui importanti come la giustizia sociale. Soffriva, ma voleva comunque lottare nel mondo per affermare i suoi ideali. Invece il ragazzino che racconto preferisce rifugiarsi in un mondo virtuale. Sceglie lui stesso l’isolamento. Il dramma che racconto da genitore ferito è che quell’argento vivo, quella fiamma vitale che dovrebbe bruciare soprattutto nell’animo di un adolescente, sia invece spenta».
Da dove arriva il titolo?
«Una madre mi ha scritto definendo suo figlio “argento vivo”: era un ragazzino iperattivo e con deficit di attenzione e lei mi ha chiesto di parlarne. Sono disturbi che, in particolare in America, vengono diagnosticati con molta leggerezza, medicalizzando la naturale vivacità dei bambini. Ma è vero che ci sono casi in cui invece occorre intervenire e ci sono ormai molti studi che dimostrano l’influenza di un’esposizione eccessiva a Internet e videogiochi».
La canzone si chiude con una frase terribile: «Se c’è un reato commesso là fuori è stato quello di nascere»…
«Non sono d’accordo con nulla di quello che lui dice, è il suo punto di vista, ma ci tenevo a fare una canzone dura. È bello che in uno stesso Festival convivano un inno all’amore come quello di Cristicchi e un pezzo che mostra in tutto il suo orrore una possibilità che può essere molto frequente. Io l’ho intravista nei miei figli, nei loro compagni, nei figli di amici: questa tendenza spaventosa a cercare il vuoto, una forma di autodistruzione più o meno consapevole».
Il ragazzino dice che sono la scuola e la famiglia ad averlo ingabbiato…
«È quello che lui percepisce. In realtà, secondo me il problema sta nel fatto che la tecnologia si evolve a una velocità incomparabilmente superiore agli strumenti culturali per valutare gli effetti dei cambiamenti che essa produce. Se ci fosse un contraddittorio, più che ai genitori darei la parola agli insegnanti, veri eroi di oggi. Con mezzi limitatissimi si fanno in quattro per non far spegnere l’argento vivo e spesso si ritrovano come nemici proprio i genitori, che difendono i loro figli sempre e comunque».
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In un’altra tua nuova canzone, Tempi modesti, parli di quelli che, quando c’è un incidente, si fanno «il selfie con il morto». Spesso, sono ragazzini. La parole pudore, rispetto non hanno più senso?
«È il discorso che facevo prima sulla mancanza di riflessione riguardo i cambiamenti portati dalla tecnologia. Ciò porta a far sì che ciò che è brutto o violento riscuota molto più successo dei loro opposti. In più noi adulti condividiamo questi strumenti con i ragazzi e questo ci rende meno autorevoli ai loro occhi. Come facciamo a rimproverare un figlio che fa un selfie inopportuno se ci vede inviare messaggini con il cellulare mentre guidiamo? È più difficile oggi trasmettere dei valori. Credo che senza nemmeno usare la parola, mio padre me ne abbia trasmessi di più di quelli che io sono riuscito a fare con i miei figli. Forse è stato per merito di mio padre e basta, ma forse c’è anche un problema di credibilità. Cose che per me sono scontate, per molti ragazzini non lo sono».
Per esempio colpisce la presenza sui social di simboli, come la svastica nazista, usati con assoluta leggerezza…
«Una volta per caso sono capitato nella chat di uno dei miei figli e di svastiche ne ho viste tante, usate per lo più accanto a simboli giocosi. Credo che la storia dovrebbe essere la prima cosa da insegnare. La miglior medicina contro questa velocità che omologa tutto è il recupero dell’oralità, dei racconti che ci facevano i nostri nonni che avevano vissuto la povertà e la guerra».
Cosa pensano Santiago e Pablo, i tuoi due figli adolescenti, di Argentovivo?
«Il primo, che è molto espansivo e a sua volta è un piccolo rapper, mi ha fatto degli apprezzamenti di tipo tecnico-artistico. L’altro, invece, è un orso a cui bisogna tirar fuori le parole con le tenaglie. Il fatto che mi abbia scritto: “Bravo papà, canzone bellissima”, mi ha fatto quasi piangere».
Il tuo nuovo album che uscirà in primavera si chiamerà Scusate se non piango. Perché?
«È il primo verso di una delle canzoni. Il protagonista è ancora un ragazzino che stavolta arriva in ritardo al raduno dei suoi compagni di scuola che protestano per qualcosa. Ma a lui non importa nulla, perché il giorno prima si è innamorato. Quindi ride e basta. Un’altra medicina, forse la più potente, è la vita reale che irrompe con l’amore, le passioni, anche le “tranvate” che uno prende, ma che ti portano via da tutte le prigioni virtuali».
L’intervista è stata pubblicata da Famiglia Cristiana in edicola
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