«Non siamo supereroi, aiutiamo solo i bimbi che hanno ricevuto meno». Dopo i “fatti di Bibbiano” abbiamo chiesto a una coppia di Rovigo di raccontarci la loro esperienza di affido: «Seguiamo don Milani affidandoci a Dio».
I coniugi Michela Simonetto, 37 anni, e Davide Girotto, 40 anni – entrambi operatori sociali – hanno gli occhi che brillano. Abitano nella primissima periferia di Rovigo insieme ai loro figli naturali Nicola, 6 anni, Maddalena, 4 anni, e Gabriele, 20 mesi, e a due ragazze adolescenti in affido. Negli anni scorsi hanno accolto, sempre in affido, altri due minori. «Lo stile di vita della porta aperta rientra nella nostra vocazione sponsale», spiegano. «Fin da fidanzati abbiamo desiderato costruire una famiglia allargata, che andasse oltre le quattro mura di casa».
Michela e Davide si sono conosciuti nel 2010 a un corso di formazione per volontari in servizio civile. L’anno successivo, l’11 settembre 2011, hanno detto il loro sì per sempre, anche alla luce di un cammino compiuto seguendo i passi di don Lorenzo Milani. «Si tratta di una figura di riferimento che tuttora ci stimola riguardo a valori quali la giustizia sociale e la formazione di giovani svantaggiati in termini economici e sociali», raccontano. «Dalla sua semplicità abbiamo imparato che occorre lottare per fare parti uguali fra disuguali. Nel mondo ci sono bambini che hanno ricevuto meno, e non certo per colpa loro. Ci sentiamo chiamati a rimediare, come sosteneva don Milani. Il suo I care
, mi interesso dei più bisognosi, ci continua a interrogare: è una stella polare che ci guida».Così come lo è l’istituto dell’affidamento familiare, ovvero la possibilità disciplinata da una legge del 1983 di dare una nuova opportunità a quei minori allontanati dalle loro famiglie di origine (perché maltrattati o non adeguatamente curati), sulla scorta di un decreto del Tribunale dei minorenni. «In queste settimane si fa un gran parlare del caso di Bibbiano. Non vogliamo entrare nel merito della vicenda, non abbiamo elementi utili per esprimere dei giudizi. Tuttavia, sulla base della nostra esperienza possiamo affermare che talvolta i servizi sociali aspettano fin troppo tempo prima di intervenire», sottolineano i due sposi. «Questo succede perché solitamente il Comune di riferimento spera fino all’ultimo che i genitori di pancia si ravvedano in qualche modo, magari grazie all’aiuto degli educatori o di una rete di volontariato».
Quando però il nucleo originario rischia di diventare addirittura un pericolo per il figlio, o i figli, l’autorità giudiziaria è tenuta a prendere i dovuti provvedimenti, come per l’appunto previsto dalla relativa normativa. In quel momento inizia il percorso più difficile: la ricerca di una comunità, di una casa-famiglia o di una famiglia tradizionalmente intesa, che possa far crescere il minore in un clima sereno fino ai 18 anni. Con l’obiettivo, qualora ci fossero le condizioni, di un rientro nella famiglia d’origine.
«Nel gennaio del 2012 abbiamo dato questa particolare disponibilità alla nostra Ulss», raccontano Michela e Davide. «Dopo una serie di colloqui di valutazione con psicologici e assistenti sociali abbiamo ottenuto l’idoneità. I servizi ci hanno proposto il primo abbinamento con un 14enne orientale: veniva da noi tre volte alla settimana a studiare».
Ottenuta la licenza media, è terminato il progetto. Nel frattempo è nato Nicola, mentre l’Ulss si è fatta risentire per un secondo affido, stavolta sine die (senza termine) di una 14enne. «Ci siamo buttati, lo abbiamo colto come un segno. Si è identificata subito nel nostro nucleo, desiderava con tutto il cuore fare famiglia».
Un nuovo affido nel 2016, durato oltre un anno. Poco prima la nascita di Maddalena. Nel mezzo l’ultimo, solo in ordine di tempo, affido di una giovane che adesso ha 17 anni e il lieto evento chiamato Gabriele. «Molti ci dicono che siamo bravi, ci vedono quasi come dei supereroi. Naturalmente non è così. Siamo una coppia media, come tante, con i propri difetti», puntualizza Michela.
«Forse siamo solo incoscienti», precisa il marito. «Personalmente non mi spavento di fronte alle situazioni, specie quelle nuove. Ora l’affido fa parte della nostra esistenza, domani chissà. Bisogna stare attenti a mantenere il giusto equilibrio». Il che, secondo loro, significa dare sempre e comunque priorità alla coppia e ai figli naturali.
«Crediamo nella logica del villaggio, che aiuta a far fiorire i più piccoli; in tal senso, tutti abbiamo una responsabilità nei loro confronti», continuano i Girotto. «È un impegno civile, prima ancora che cristiano. Se accade qualcosa di grave a un bimbo all’interno della sua dimora, non possiamo girarci dall’altra parte: dobbiamo sentirci interpellati. Nel nostro piccolo lottiamo per un mondo più giusto; lì, nella concretezza delle tante cose da portare avanti e nel tempo che non basta mai, tentiamo di scoprire il disegno che Dio ha per noi».
Immancabilmente l’avventura dell’affido − «Sai quando inizi, ma non quando finirà» − apre delle ferite all’interno della famiglia che prende in carico i minori. «Si tratta di persone con una storia di sofferenze alle spalle, è necessario essere consapevoli che prima o poi lo scossone arriva. Allora tiri fuori le migliori energie», chiude Davide. «Poi dove non arrivi tu, ci penserà Qualcun altro. Facciamo del nostro meglio, ma non siamo i salvatori di nessuno».
Di francesco Cavallaro per Credere.it
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