Ho letto questo titolone: «La Chiesa di Svezia smetterà di riferirsi a Dio al maschile: “Non ha genere”». L’assunto è semplice: se il Creatore è infinito, sfugge alle nostre classificazioni terrene, quindi è pure gender-free (se volete altri scoop: Dio non ha neppure la barba, né l’abito bianco, né il volto di Morgan Freeman).
Dio è senza dubbio impossibile da classificare, ma resta il fatto che noi guardiamo a lui solo tramite gli occhiali stretti della nostra intuizione limitata. Quindi, o ci rassegniamo a lasciarlo distante, o lo costringiamo a indossare il vestito insufficiente di alcuni parametri umani che ci danno indicazioni per conoscerlo.
Perché le Sacre Scritture hanno sempre chiamato Dio con la parola che identifica il genitore maschile? È stato solo un miope obbligo culturale, o c’è di più?
Per capirlo, sarebbe necessario ricostruire qual è il ruolo ancestrale del padre, al netto degli stereotipi e delle mode sociali. Gli psicanalisti spiegano che, in una famiglia sana, il papà ha la funzione di mettere un freno al desiderio di fusione tra la mamma e il suo bambino. La psicologia, con tutti i suoi sviluppi, ce lo insegna con chiarezza: il genitore maschio è un “terzo incomodo” che taglia una volta per tutte il cordone al figlio, indicando un obiettivo oltre, un desiderio che superi la semplice autoconservazione. Solo grazie a questo trauma salutare, il ragazzo potrà intuire di avere un proprio, singolare, destino.
Se Freud aveva ragione, dobbiamo ricordarci che Dio è un nome maschile ogni volta che rifiutiamo la nostra condizione di creature. L’uomo che dà l’assalto al cielo per arrivare alla celeste stanza dei bottoni, è destinato a sfracellarsi, a fallire, perché ha abdicato al ruolo che gli è proprio: quello di essere umano. Dio è papà perché non può accettare la sovrapposizione coi suoi figli. Il taglio è soltanto all’apparenza crudele, è un gesto d’amore: l’unico che ci permette di inseguire la nostra vera vocazione.
Fonte it.aleteia.org/Emanuele Fant