In vista del Sinodo ordinario dei vescovi sulla famiglia ad ottobre in Vaticano, la Libreria editrice vaticana ha pubblicato il resoconto di tre seminari nei quali 29 tra i maggiori esperti mondiali riflettono sulle questioni “sensibili” inerenti il rapporto tra famiglia e Chiesa.
E’ un volume di oltre 500 pagine, pubblicato dalla Libreria Editrice Vaticana due mesi fa e passato praticamente sotto silenzio. Contiene la più avanzata riflessione sul rapporto tra la famiglia e la Chiesa e su tutte le questioni “sensibili”. Lo ha curato il Pontificio Consiglio per la famiglia, presieduto da mons. Vincenzo Paglia. E’ il resoconto di tre seminari a porte chiuse dove 29 tra i maggiori esperti mondiali (canonisti, teologi morali, dogmatici e pastoralisti, psicologi, antropologi, filosofi) si sono confrontati per offrire un contributo interdisciplinare al prossimo Sinodo ordinario dei vescovi sulla famiglia ad ottobre in Vaticano. Tra loro non c’era alcun vescovo o cardinale.
I seminari si sono svolti in 17 gennaio, il 21 febbraio e il 14 marzo 2015. Ai seminari hanno partecipato anche mons. Paglia, il sottosegretario al Sinodo dei vescovi mons. Fabio Fabene il segretario del Pontifico consiglio mons. Jean Laffitte, il sottosegretario al Pontificio Consiglio per la famiglia mons. Simon Vazquez, ma nessuno di loro è intervenuto nel dibattito. Dalla discussione è emersa una sostanziale volontà di cambiamento e di aggiornamento anche delle attuali prassi pastorali e la richiesta di approfondimento della teologia del matrimonio. Ha detto don Eberhard Schockenhoff docente di teologia morale all’università di Friburgo in Germania nell’ultimo seminario: “Le possibilità di un’evoluzione della dottrina ecclesiastica del matrimonio sono maggior di quanto non suggerisca l’affermazione secondo la quale la Chiesa non può modificare la sua prassi senza tradire le proprie tradizioni”.
Eucarestia e unioni “irregolari”. La relazione che ha aperto l’ultimo dei tre seminari il 14 marzo, è stata svolta da don Gianpaolo Dianin che insegna morale familiare e pastorale della famiglia alla Facoltà teologica del Triveneto ed è rettore del Seminario maggiore di Padova. Ha spiegato che vi sono questioni teologiche e pastorali “aperte” e ha premesso che la Chiesa nel corso della storia ha sempre regolato il matrimonio sulla base “delle problematiche nuove che di volta in volta emergevano”. Riguardo a ciò che è permesso o proibito a chi si è separato e poi risposato, Dianin sottolinea come “un’amonalia” il divieto a fare i catechisti contrapposto alla sollecitazione ad “educare cristianamente i figli”. Denuncia che alcuni cristiani considerano i divorziati risposati “persone pericolose, inaffidabili che hanno tradito una promessa” e dunque, è il suo consiglio, “ancora prima di “ogni iniziativa bisogna lavorare per cambiare la mentalità e l’atteggiamento” delle comunità.
Tra coloro che vivono il disagio maggiore vi sono i sacerdoti, “che vorrebbero fare qualcosa, ma si sentono le mani legate dalla disciplina della Chiesa che ha volte conoscono poco”. Sulla questione del rapporto tra verità e misericordia circa l’indissolubilità e la possibilità di accostarsi alla comunione, don Dianin ricorda una frase di Joseph Ratzinger, pubblicata nel 1969 nel suo testo “La teologia del matrimonio”: “Al sotto della soglia della dottrina classica, per così dire al di sotto o all’interno di questa piena forma che caratterizza la Chiesa, c’è sempre stata evidentemente nella pastorale concreta una prassi più morbida che, per quanto non sia del tutto conforme alla vera fede della Chiesa, tuttavia non è stata assolutamente esclusa”. Anche alcuni libri penitenziali dal V al XI secolo ammettevano dopo la penitenza i divorziati risposati ai sacramenti.
Molte ipotesi per la Comunione. I padri sinodali non hanno davanti a sé una pagina bianca anche se Dianin riconosce che finora il magistero della Chiesa non ha preso in considerazione nulla. Le ipotesi sono molte. C’è quella di Bernard Haering, notissimo teologo tedesco che nel 1990 in un volume sulla “pastorale dei divorziati” elaborò la tesi di una “morte morale” del vincolo, come nel caso della vedovanza, per permettere le “seconde nozze”. I vescovi francesi nel 1992 hanno raccomandato ai fedeli di seguire la coscienza e la stessa cosa hanno fatto i vescovi dell’Alto Reno, tra cui i cardinali Lehman e Kasper, l’anno successivo, ma sono stati criticati dalla Congregazione per la dottrina delle fede. Oggi la comunione la possono ricevere i coniugi risposati solo se si astengono dai rapporti sessuali. Lo ha ribadito Giovanni Paolo II nella Familiaris consortio. Nonostante ciò sul tema c’è una aperta discussione tra i teologi e c’è stata anche al Sinodo straordinario dell’anno scorso. Alphonse Borras, canonista a Lovanio e all’Istituto cattolico di Parigi, ritiene il requisito “profondamente ambiguo”, perché riduce la sessualità alla sola “genitaalità”, altri invece sono d’accordo.
L’unico peccato “imperdonabile”? La discussione più ampia è stata fatta sul concetto di peccato e di peccato “imperdonabile”. Attualmente il peccato del “nuovo matrimonio” è l’unico che non può essere perdonato. I divorziati risposati non potranno mai accedere ai sacramenti,cioè all’Eucarestia, alla Confessione e all’unzione degli infermi, come stabilito dal canone 915 del codice di diritto canonico. Humberto Miguel Yanez, gesuita direttore del Dipartimento di teologia morale della Pontificia università Gregoriana, ha osservato: “Abbiamo concesso la comunione ai genocidi che non hanno mai fatto ritrattazione pubblica, ai capitalisti che hanno sfruttato gli operai per far crescere il loro profitto senza limiti, ai mafiosi che hanno strumentalizzato la Chiesa per legittimare i propri affari e la loro malavita, ai criminali di guerra che mai si sono pentiti, ma non è consentito ai divorziati risposati”.
Davvero si tratta di “peccato senza perdono”? Il teologo francese Xavier Lacroix, per molti anni docente all’università cattolica di Lione, contesta e spiega che “non c’è vita cristiana senza perdono e neanche vita coniugale” e che il perdono “non è una scusa o un oblio, ma una ri-dono”. Eberhard Schockenhoff docente di teologia morale all’università di Friburgo in Germania, citando San Tommaso, il quale riteneva una “punizione perenne inadeguata”, chiede un aggiornamento dellaFamiliaris consortio. Eduardo Scognamiglio, frate minore che insegna teologia alla Facoltà teologica dell’Italia meridionale, confida che il Sinodo si chieda “con onestà se è possibile privare un fedele dell’Eucarestia per tutto il decorso della sua esistenza”.
Una proposta per la Comunione. Dal seminario è uscita una proposta, abbastanza articolata, che prevede un cammino penitenziale, accompagnato dal vescovo o da un sacerdote specializzato indicato da lui e poi, eventualmente, l’Eucarestia. Ma sono emersi pareri contrastanti. Padre Josè Granados, docente di teologia dogmatica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II a Roma, ritiene che il percorso penitenziale debba finire con la rottura della nuova unione o, se non è possibile, con la piena continenza sessuale. La sua è la posizione più radicale. Tutti gli altri hanno convenuto che il percorso penitenziale, che può essere più o meno lungo con una conclusione preferibilmente pubblica con una celebrazione davanti alla comunità, permetta di tornare ad accostarsi al sacramento. Il relatore del seminario don Giampaolo Dianin ha sottolineato che la Relatio synodi non parla dell’impegno a vivere “come fratello e sorella”, e non chiede solo il pentimento, ma un cammino penitenziale sotto la responsabilità del vescovo e ipotizza un’ammissione parziale alla Comunione, per esempio il giorno di Pasqua. Di un’ipotesi del genere si è parlato anche al Sinodo dell’anno scorso, a quanto si apprende, riproponendo la tradizione elaborata dal Concilio lateranense IV ( 1215) che stabilì il cosiddetto “precetto pasquale”, cioè la comunione e la confessione necessaria nell’economia della salvezza almeno una volta all’anno. Quindi ciò è il minimo che non si può negare ai divorziati risposati. La proposta ha trovato sostanziale consenso, anche con sfumature diverse. C’è chi ha spiegato che limitarla, dopo la confessione non ha senso. Chi invece ritiene che sia un segno del fatto della gravità della situazione, pur avendo compiuto un cammino penitenziale.
Attenti al legalismo. Tuttavia non si può imporre nulla e occorre stare attenti alla psicologia delle persone e alle esigenze di proteggere la privacy. Altrimenti si corre il rischio, hanno avvertito alcune intervenuti, di considerare la Chiesa come una dogana, come ha denunciato più volte papa Francesco. Va evitato, come ha spiegato il gesuita Gian Luigi Brena, docente di antropologia filosofica all’Istituto Aloisianum di Padova, di mettere l’accento “sulla disciplina” e il fatto che il cammino penitenziale possa essere inteso come “un castigo o un prezzo da pagare” insomma “un dazio”. Quindi non bisognerebbe considerare la “serietà della richiesta come una condizione previa per cominciare un cammino, perché “il perdono non si guadagna, neppure si merita, ma è un dono gratuito del Signore” e quindi non si possono stabilire prima quali sono le condizioni per poter bussare alla porta della Chiesa. Né tuttavia si deve temere di essere accusati di “lassimo” o di “buonismo” o di “poca serietà” se si ragiona su questi temi e si cercano strade per una soluzione. Il padre Brena lo ha detto con grande chiarezza al seminario: “Tutto ciò può portarci a dimenticare la misericordia e a mantenerci in posizioni di sicurezza, rischiando di restare fermi al giudizio verso delle persone in difficoltà, senza arrivare all’accoglienza e al perdono”. E aggiunge: “Oltretutto la disciplina attuale non sembra sia così sicura; in questo caso non ci sarebbe stato bisogno di un doppio Sinodo”.
La contraccezione. Dalla seconda sessione del seminario, quella del 21 febbraio, è venuta la richiesta al prossimo Sinodo di un chiarimento dell’atteggiamento della Chiesa di fronte alla sessualità, superando una “eccessiva severità e una regolamentazione autoritaria”, ha osservato il gesuita padre Brena. Il francescano padre Scognamiglio ha spiegato che “i metodi naturali non vanno assolutizzati” e hanno bisogno di “essere vagliati criticamente dal punto di vista scientifico”: “Al prossimo Sinodo bisogna far emergere un pensiero maturo sulla fede e sulla morale. Non possiamo sostituirci alle scelte della coppia, ma semplicemente possiamo educare a scegliere con consapevolezza e maturità di fede”. Quindi, ha proseguito il francescano, “non possiamo e non dobbiamo sostituirci alle coscienze dei fedeli in ogni ambito, soprattutto in quello della morale sessuale e familiare”. Paolo Moneta, professore ordinario di diritto canonico all’università di Pisa, ha spiegato che “dal punto di vista giuridico sono irrilevanti i mezzi con cui i coniugi intendono regolare le nascite”: “Se vi è una radicale esclusione della prole il matrimonio è nullo anche se i coniugi intendono usare soltanto quei metodi naturali accettati dalla morale cattolica”. E Xavier Lacroix contesta che vi sia “un abisso” tra i metodi naturali e gli altri. “In entrambi i casi l’unione è separata dalla procreazione”. Quindi invita a superare in questo campo la dicotomia “permesso – proibito”.
Senza dubbio tutti nel dibattito hanno dimostrato di dare una preferenza ai metodi naturali, ma la discussione sulla liceità degli altri metodi non va chiusa. Il teologo tedesco Schockenhoff invita a riflettere sull’”incertezza” circa la questione “se la fondamentale apertura alla vita debba essere preservata in ogni singolo incontro sessuale” e osserva che “su questo punto le argomentazioni del magistero omettono di fornire una spiegazione, aprendo una lacuna che lascia in forse la conclusione normativa che l’uso dei metodi contraccettivi artificiali sia moralmente inammissibile” e domanda: “Benché sia indubbio che una sessualità umanamente degna debba salvaguardare il primato della persona, perché mai questo primato dovrebbe venir meno solo per il fatto che i coniugi escludono temporaneamente o durevolmente la fertilità dell’atto sessuale?”. Nella relazione introduttiva al seminario don Maurizio Chiodi, che insegna teologia morale alla facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano, ha messo in luce “la seria difficoltà di una divario tra dottrina e pratica pastorale” e invitato a non limitarsi all’alternativa secca pillola sì o pillola no. Il gioco c’è anche la questione del rapporto tra “norma e coscienza”, cioè “tra ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo, e dunque tra la coscienza e la ragione che conosce la natura”.
Matrimoni cattolici veri o falsi? Ci si può sposare in chiesa anche senza fede? La questione è stata molto dibattuta al Sinodo e approfondita nel primo giorno del seminario degli teologi. La relazione introduttiva del prof. Andrea Bozzolo, salesiano, che insegna teologia sistematica ed è preside della Facoltà teologica della Pontificia università salesiana, ha denunciato che “per lo più i percorsi di accompagnamento al matrimonio stentano ad assumere il profilo di un vero itinerario ecclesiale”. Il teologo africano Gregoire Kifuayi, docente alla Ecolé teologie di Yaoundé in Camerum, ha detto che non si dovrebbe concedere il sacramento per il solo fatto che “gli sposi sono battezzati”. Ma la questione non è di facile soluzione: da una parte non si può svendere un sacramento, dall’altra non ci si può opporre alla buona volontà delle persone che chiedono il matrimonio in Chiesa. Il punto centrale è la fede degli sposi e non solo la loro appartenenza o vicinanza alle istituzioni della Chiesa. Il teologo tedesco Schockenhoff, che nel corso dei seminari ha posto sul tappeto questioni e riflessioni molto avanzate, proprio ragionando sulla fede dei coniugi ha osservato che “una teologia del matrimonio dovrebbe tenere conto anche della possibilità di un fallimento del matrimonio”: “Tale fallimento è teologicamente spiegabile solo con il fatto che i coniugi non hanno collaborato sufficientemente con la grazia divina concessa loro dal sacramento del matrimonio”. Sicuramente la questione sarà uno dei nodi centrali del prossimo Sinodo di ottobre.
Di Alberto Bobbio per Famiglia Cristiana