Dodici bambini siriani morti di freddo nei campi profughi

Dodici bambini siriani, tra cui neonati, sono morti di freddo e stenti nell’ultimo mese e mezzo nei campi profughi improvvisati nell’Est del Libano. La denuncia è apparsa oggi sui media di Beirut. Il Paese continua, intanto, a subire le conseguenze della guerra civile in Siria e della lotta contro lo Stato Islamico. I jihadisti dell’Is e i qaedisti del Fronte al Nusra si sono nuovamente scontrati nella regione montuosa del Qalamoun, al confine tra i due Paesi.

E in Libano sono oltre un milione e mezzo i profughi ospitati, in fuga dalle violenze. Massimiliano Menichetti, per la Radio Vaticana, ha intervistato il prof. Aldo Morrone, presidente dell’Istituto Mediterraneo di ematologia, appena rientrato dalla quinta missione nei campi profughi libanesi:
R. – La situazione rispetto al passato è peggiorata purtroppo. I bambini e le donne si ammalano più rapidamente e più velocemente rispetto al passato, ci sono meno medicine e meno possibilità di curarli.

D. – Quali sono le malattie che ha riscontrato?
R. – Intanto, in questo momento in Libano fa freddo, molto freddo. Le tende, le baracche fanno passare il gelo e il vento, quindi abbiamo broncopolmoniti diffuse, scabbia, morbillo tra i bambini, abbiamo l’epatite virale, poi due malattie drammatiche: la poliomielite e l’altra è la Mers, un’infezione dal virus della Sars, modificato, che è proprio un’infezione respiratoria grave del Medio Oriente, che si chiama Middle East Respiratory Syndrome.

D. – Il sistema sanitario libanese è al collasso, come vive la popolazione la presenza di così tanti profughi?
R. – Effettivamente c’è una situazione drammatica perché in Libano su una popolazione di quattro milioni di abitanti circa abbiamo almeno un milione e mezzo di rifugiati che sono arrivati dalla Siria. Però devo dire che molti libanesi, in particolare le donne si danno da fare per aiutare le altre donne siriane e palestinesi ad essere accolte. Il nostro lavoro è quello di visitare, curare e distribuire anche le medicine dopo aver fatto le diagnosi in questi campi, non soltanto ai rifugiati ma noi visitiamo anche i libanesi più poveri.

D. – In questa quinta missione siete stati anche al campo profughi di Shatila?
R. – In una superficie di un chilometro quadrato, in pratica, vivono in questo momento più di trentamila persone in una condizione di degrado ambientale e di povertà estrema. In quest’area per poter visitare e curare abbiamo dovuto creare una struttura temporanea addirittura in un grande parcheggio, perché dentro Shatila è un caos: fili della corrente sparsi dappertutto, tubi dell’acqua, c’è una situazione assolutamente invivibile, inimmaginabile per noi occidentali. Stiamo cercando, per il prossimo anno, di creare una struttura stabile sia per visitare, sia per avviare la formazione del personale locale e garantire quindi che un’attività di prevenzione delle malattie e restituire la salute a queste persone.

D. – Ma dunque l’intervento delle Ong e della Caritas non è sufficiente?
R. – La situazione in Libano si è deteriorata perché le risorse che in un primo tempo sono arrivate adesso non ci sono più. C’è anche da parte del governo un tentativo di evitare altri accampamenti, per cui i rifugiati si organizzano in un “fai da te” impressionante. Le risorse, ripeto, non ci sono. L’80 per cento della popolazione libanese non ha accesso al servizio sanitario, non gode di un’assicurazione privata. Non esiste un servizio sanitario pubblico degno di questo nome. Ed è proprio all’interno di questo quadro che noi stiamo lavorando perché il governo, immediatamente dopo – noi speriamo al più presto – la fine della guerra in Sira e dell’avanzata dei terroristi dell’Is si possa creare un servizio sanitario pubblico per tutti.

A cura di Redazione Papaboys fonte: Radio Vaticana

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