Sfidando il regime segregazionista del tempo questa donna bergamasca, assieme al marito Daniel, diede vita a centri per la cura e l’assistenza ai minori. Ora in cammino verso la beatificazione
Era il 1943, quando Domitilla Rota conobbe Daniel Hyams. Lei una giovane bergamasca, attratta dall’Africa, immaginata da bambina come meta di una vita da missionaria. Lui un giovane soldato sudafricano, in fuga verso la Svizzera, evaso da un campo di concentramento vicino a Bergamo. Ad Almenno, Daniel si nasconde sulle colline dell’Albenza dove trova non solo accoglienza. Domitilla e Daniel che gode l’ospitalità clandestina della famiglia di lei – si scambiano promesse d’amore eterno. Nel 1947, ecco Daniel tornare in Italia, salire sulla collina bergamasca (un viaggio allora di due-tre settimane) e l’8 settembre sposare Domitilla.
Celebrate le nozze i due partono per Johannesburg dove costruire una famiglia che di- venterà singolare. Perché dopo aver cresciuto sei figli, assieme a Daniel, Domitilla, spirito missionario mai spento, realizza una ‘nuova maternità’. Ridiventando madre amorosa per centinaia di bambini emarginati con disabilità mentali presi nelle periferie dove le persone di colore vivevano segregate. Offrendo sollievo a mamme impossibilitate o incapaci di occuparsene, migliorando le condizioni di vita dei piccoli. Tutto questo con il marito – dimessosi nel frattempo dalla Roche Pharmaceuticals per lavorare con lei – superando la cultura delle barriere e l’assurda visione dell’handicap come scarto del mondo. Tutto questo dopo un breve rientro in Italia per visitare la sua famiglia e scacciando la tentazione di restarci, anzi chiedendo aiuto ai suoi conterranei. Così nel ’67, dopo vent’anni di Sudafrica, parecchi traslochi e fiducia nella Provvidenza, a Edenvale, provincia di Gauteng, Domitilla e Daniel hanno trovato spazio per ‘Little Eden’, una residenza per i suoi ‘piccoli angeli’, alla quale nel ’91 si sarebbe aggiunto a Bapsfontein, l’’Elvira Rota Village’, (dal nome della madre di Domitilla).
Due strutture che avevano un’assistenza meno pioneristica, pochi sussidi statali e una dipendenza dalle donazioni. Oggi portate avanti dai volontari che hanno amato Daniel e Domitilla ‘l’eroina del Sudafrica’, come la salutò incontrandola Nelson Mandela
. «Domitilla considerava le persone con disabilità mentali altrettanto preziose agli occhi del Signore. Con il marito ha fatto qualcosa di straordinario. Si tratta di due vite spese nel segno della gratitudine e della fede». Così ribadiva l’anno scorso ai microfoni di Radio Lemine l’arcivescovo di Johannesburg Tlhagale. Proprio in questi giorni l’arcivescovo torna ad Almenno con i sacerdoti che si occupano della causa di beatificazione di Domitilla e Daniel annunciata l’11 febbraio scorso.Non a caso Domitilla diceva che «ognuno di noi è chiamato ad essere le mani di Gesù». Così come non a caso Domitilla – fedele alla preghiera quotidiana come documentano i diari – desiderò sempre che presso le due residenze ci fosse un accompagnamento spirituale per gli ospiti e il personale (cosa realizzatasi con due cappelle e una presenza religiosa, oggi quella di sei suore indiane della Congregazione dell’Imitazione di Cristo).
Non a caso, monsignor Davide Pelucchi nel libro «A lady of the Angeles», richiamando le nozze di Cana e l’immagine delle giare riempite dai servi fino all’orlo, afferma che la testimonianza di questa coppia «è stata così esemplare da portare la Conferenza episcopale del Sud Africa ad aprire il processo di beatificazione». In quella circostanza si è riconosciuta la dimensione spirituale di un impegno lasciato in eredità che ha messo al centro la sacralità della vita, il fiore coltivato in questo piccolo Eden dove cura e accompagnamento diventano amore e speranza.
Di Marco Roncalli per Avvenire.it
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