In quel momento ho visto vicino a lui una donna maestosa, vestita di un manto che risplendeva da tutte le parti, come se in ogni punto ci fosse una stella luminosissima. Vedendomi sempre più confuso, mi fece cenno di andarle vicino, mi prese con bontà per mano e mi disse: “Guarda” Guardai e mi accorsi che quei ragazzi erano tutti scomparsi. Al loro posto c’era una moltitudine di capretti, cani, gatti, orsi e parecchi altri animali. La donna maestosa mi disse: “Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Cresci umile, forte e robusto, e ciò che adesso vedrai succedere a questi animali, tu lo dovrai fare per i miei figli.» Guardai ancora, ed ecco che al posto di animali feroci comparvero altrettanti agnelli mansueti, che saltellavano, correvano, belavano, facevano festa attorno a quell’uomo e a quella signora. A quel punto nel sogno mi misi a piangere. Dissi a quella signora che non capivo tutte quelle cose. Allora mi pose una mano sul capo e mi disse: «A suo tempo, tutto comprenderai”. Aveva appena detto queste parole che un rumore mi svegliò. Ogni cosa era scomparsa. Io rimasi sbalordito. Mi sembrava di avere le mani che facevano male per i pugni che avevo dato, che la faccia mi bruciasse per gli schiaffi ricevuti. Al mattino ho subito raccontato il sogno, prima ai fratelli che si misero a ridere, poi alla mamma e alla nonna. Ognuno diede la sua interpretazione. Giuseppe disse: «Diventerai un pecoraio». Mia madre: “Chissà che non abbia a diventare prete.» Antonio malignò: “Sarai un capo di briganti”. L’ultima parola la disse la nonna, che non sapeva né leggere né scrivere: “Non bisogna credere ai sogni”. Io ero del parere della nonna. Tuttavia quel sogno non riuscii più a togliermelo dalla mente”.
Ispirato dalle notizie riguardanti Don Giovanni Cocchi, che pochi anni prima di lui aveva tentato di radunare all’interno di un Oratorio i ragazzi disagiati di Torino, Giovanni Bosco decise di scendere per le strade della sua città e osservare in quale stato di degrado fossero i giovani del tempo. Incontrò così i ragazzi che, sulla piazza di Porta Palazzo, cercavano in tutte le maniere di procurarsi un lavoro. Di questi giovani molti erano scartati perché poco robusti e in poco tempo costretti a finire presto sottoterra. Le statistiche confermano che in quel tempo ben 7184 fanciulli sotto i dieci anni erano impiegati nelle fabbriche. In piazza San Carlo, Don Bosco poteva conversare con i piccoli spazzacamini, di circa sette o otto anni, che gli raccontavano il loro mestiere e i problemi da esso generati. Erano molto rispettosi nei confronti del sacerdote che li difendeva molto spesso contro i soprusi dei lavoratori più grandi che tentavano di derubarli del misero stipendio. Insieme a Don Cafasso cominciò a visitare anche le carceri e inorridì di fronte al degrado nel quale vivevano giovani dai 12 ai 18 anni, rosicchiati dagli insetti e desiderosi di mangiare anche un misero tozzo di pane. Dopo diversi giorni di antagonismo, i carcerati decisero di avvicinarsi al sacerdote, raccontandogli le loro vite e i loro tormenti. Don Bosco sapeva che quei ragazzi sarebbero andati alla rovina senza una guida e quindi si fece promettere che, non appena essi fossero usciti di galera, lo avrebbero raggiunto alla chiesa di San Francesco. L’8 dicembre 1841 incontrò, prima di celebrare Messa, Bartolomeo Garelli nella sacrestia della chiesa di San Francesco di Assisi. Questi fu il primo ragazzo che si unì al suo gruppo. Don Bosco aveva deciso così di radunare intorno a sé tutti i ragazzi degradati della zona, dai piccoli spazzacamini agli ex detenuti. Fondamenti della sua futura attività erano tre: l’amicizia con i giovani (che molto spesso erano orfani senza famiglia), l’istruzione e l’avvicinamento alla Chiesa. La sera di quello stesso giorno, Giovanni fece amicizia anche con i tre fratelli Buzzetti, provenienti da Caronno Varesino, che si erano addormentati durante la sua predica. Quattro giorni dopo, durante la messa domenicale, erano presenti Bartolomeo Garelli insieme a un nutrito gruppo di amici e i fratelli Buzzetti, con seguito di compaesani. Quello sarebbe stato il primitivo gruppo che avrebbe dato il via all’Oratorio di Don Bosco. Già poco tempo dopo il gruppo era talmente numeroso che il sacerdote chiese l’assistenza di tre giovani preti: don Carpano, don Ponte, don Trivero. Anche alcuni ragazzi di media cultura si avvicinarono a Don Bosco, aiutandolo a tenere a bada i ragazzi più impulsivi e ribelli. Nella primavera del 1842, al ritorno dal paese, i fratelli Buzzetti conducevano con loro il più piccolo, Giuseppe, che si affezionò molto a Don Bosco e decise, in età adulta, di seguire la via del sacerdozio, divenendo così suo braccio destro nella gestione del futuro ordine salesiano.
Quasi 200 anni fa don Bosco invitava ad essere “buoni cristiani e onesti cittadini”… “È una lezione più che mai valida. Dobbiamo formare persone aperte ai valori della vita, giovani professionisti competenti e cittadini proattivi, impegnati non soltanto nel loro successo ma nella ricerca del bene comune. Non c’è educazione se non c’è comunicazione di valori, trasmissione di saperi e impegno sociale. Tutti i battezzati hanno la stessa dignità sebbene con diverse funzioni all’interno della Chiesa. L’impegno della testimonianza non è di alcuni ma di tutti. Un cristiano è chiamato per vocazione all’apostolato, non per hobby”. Con l’aumentare del distacco temporale e culturale da don Bosco, avverte la difficoltà di “tornare alle radici” nella Congregazione? “Don Bosco ha piantato un piccolo seme a Valdocco che è diventato un albero e poi una foresta. Oltre a quella temporale, c’è anche una distanza geografica che comporta differenze di culture, popoli, sensibilità. Quindi deve esserci una fedele inculturazione del carisma, che non si può semplicemente trapiantare. Per superare questo arco di tempo e di spazio, abbiamo scelto di avvicinarci al Bicentenario approfondendo la vita di don Bosco. In questo modo, alla fine del mio rettorato, potrò lasciare ai confratelli le fonti salesiane che dovranno essere tradotte in tutte le lingue. Poi stiamo facendo un grande lavoro di aggiornamento della pedagogia preventiva e di riscoperta della spiritualità, forse la parte meno conosciuta”.
I giovani sono ancora al centro del progetto dei salesiani? “Abbiamo fatto girare in tutto il mondo le reliquie di don Bosco, registrando un entusiasmo che mai avremmo immaginato. Questo ci ha aiutato a far conoscere meglio don Bosco: un uomo che ha creduto nei giovani quando nessuno lo faceva. E oggi capita lo stesso, i giovani non contano. Dobbiamo ricordare, però, che i giovani non sono tanto il futuro quanto il presente. Per questo è necessario dare loro opportunità di lavoro, formazione, famiglia. Prevenire significa scommettere sulle potenzialità dei giovani”.
Tra breve inizierà anche il Capitolo generale durante il quale verrà eletto il nuovo rettore maggiore… “Il Capitolo dovrà portare a recuperare l’entusiasmo dei primi salesiani perché il Bicentenario non deve essere un trionfalismo che non serve a nulla o, peggio, una festa nostalgica”.
È più difficile approcciarsi ai giovani di oggi? “I bisogni dei giovani continuano ad essere sempre gli stessi: sapersi accolti, accompagnati, sapere che l’adulto è disposto a camminare con loro sulla strada della vita. Quel che è cambiato è il contesto sociale. Molti anni fa avevamo una società monolitica con valori condivisi da famiglia, scuola e Stato. Questa concezione non esiste più. Anche l’idea di matrimonio non è la stessa: paradossalmente abbiamo bambini con più genitori che fratelli. Lo Stato pensa che la soluzione migliore sia dare carta di cittadinanza a tutto. E questo è sbagliato”.
Dal Messico all’Italia. Qual è lo stato di salute della Chiesa in Europa? “La Chiesa europea ha una ricchezza storica, culturale e teologica. È una Chiesa matura. Tutta questa ricchezza può diventare però una sclerosi che non permette di avere la freschezza e il coraggio di reagire. Ma è indubbiamente una Chiesa di una generosità unica: tra i salesiani, ad esempio, si possono trovare missionari italiani in tutto il mondo. Non è una Chiesa in declino ma rispecchia i problemi sociali, a cominciare da quelli demografici: se non ci sono figli per la società, come possono esserci per la Chiesa? E poi sta perdendo rilevanza sociale, sembra quasi che la società prescinda sempre di più da quello che essa pensa”.
E in America Latina? “È una Chiesa giovane, figlia della dominazione coloniale. Fino al Concilio Vaticano II è stata una Chiesa senza voce, perché i vescovi non avevano coraggio di parlare di fronte ai grandi teologi europei. A partire da Medellin, però, la vitalità ha iniziato a diffondersi e anche la teologia della liberazione, che leggeva la storia dalla parte degli esclusi e ha avuto i suoi problemi con talune derive marxiste, ha innestato un’aria di novità in Europa”.
Poi Aparecida… “Il capolavoro della Chiesa latinoamericana. Non c’era più la tensione degli anni precedenti ma la sensibilità di chi aveva maturato un cambiamento. Non si rinnegò la scelta per i poveri ma la si lesse in una forma nuova. È senz’altro il prodotto più bello dell’America Latina. Furono tre settimane per me indimenticabili, al termine delle quali si videro i frutti di un lavoro che ha cambiato la nostra storia”. a cura di Giovanni Profeta
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