«Il discepolo di Cristo è un testimone. La testimonianza cristiana va incontro a difficoltà, può diventare martirio. Il passo è breve, anzi è proprio il martirio che dà valore alla testimonianza. Ricordate San Paolo: “Desidero ardentemente persino morire per essere con Cristo.
Ecco, questo desiderio di morte diventa desiderio di comunione che trascende persino la vita”. Sono parole di don Pino Puglisi, assassinato dalla mafia in odio alla fede e proclamato martire dalla Chiesa il 25 maggio del 2013. Parole di desiderio e di speranza: essere in comunione con Cristo nella vita terrena ed in quella che verrà.
Parole martiriali, come quelle riferite dai tre pastorelli di Fatima, analfabeti capaci di decodificare il linguaggio del cielo nell’innocenza, nel sacrificio, nell’affidamento. Non a caso San Giovanni Paolo II, nel giorno della beatificazione di Giacinta e Francesco, ne parlò come di veri martiri della fede. Auspìci che si sintonizzano perfettamente con il messaggio di Fatima, che caratterizza questo mese mariano, peraltro ben sottolineato dal pellegrinaggio a Cova da Iria del Santo Padre Francesco, che ha voluto portare alla Vergine anche il suo personale omaggio floreale, la sua rosa d’oro. E così alla benedizione delle candele del 12 maggio sera egli ha così pregato: «Su ciascuno dei diseredati e infelici ai quali è stato rubato il presente, su ciascuno degli esclusi e abbandonati ai quali viene negato il futuro, su ciascuno degli orfani e vittime di ingiustizia ai quali non è permesso avere un passato, scenda la benedizione di Dio incarnata in Gesù Cristo».
L’obiettivo di quel messaggio mariano, ormai centenario, è tutto fare e tutto accettare pur di essere con Cristo, proprio come ricordava don Pino Puglisi citando la Lettera ai Filippesi (1,23). Al sangue versato dal Verbo umanato viene oggi unito il martirio innocente dei piccoli e dei semplici, degli orfani e delle vittime dell’ingiustizia umana, nella loro quotidianità inerme. Anche le sofferenze più cruente, perfino la morte subita per testimoniare Cristo, diventano possibili se sostenute dalla grazia. Dev’esserci, infatti, coerenza tra parola e azione, cioè tra quanto si predica e ciò che si fa. Il prete del sorriso – quel sorriso che originò un ravvedimento perfino nel suo sicario.
Un impegno, questo, che può avere costi molto alti, allorché la coerenza tra parola e azione aspira a una maggiore giustizia, a una maggiore verità, a una maggiore fede, sempre malvista dai potenti. Nelle motivazioni della sentenza della Seconda Sezione della Corte d’Assise di Palermo si legge a proposito della testimonianza di Puglisi: «… un prete che infaticabilmente operava sul territorio, fuori dall’ombra del campanile… L’opera di don Puglisi aveva finito per rappresentare un’insidia e una spina nel fianco del gruppo criminale emergente che dominava il territorio, perché costituiva un elemento di sovversione nel contesto dell’ordine mafioso, conservatore, opprimente che era stato imposto nella zona». Insomma, il buon pastore Puglisi aveva scelto di testimoniare, non soltanto ricostruendo il genuino sentimento religioso e spirituale dei fedeli affidatigli dal vescovo, ma anche schierandosi dalla parte dei piccoli, dei deboli e degli emarginati – con papa Francesco si potrebbe dire degli “scarti” del mondo – per consentire a Cristo di entrare in unione profonda con le persone, di “provocarle” con il suo volto misericordioso come quello di una madre.
Con questa testimonianza, si consente a Cristo di regnare nel cuore degli uomini; in questo modo finisce davvero ogni guerra, non soltanto quella combattuta al tempo dei tre pastorelli, ma anche quelle che le mafie vecchie e nuove combattono contro la dignità cristiana delle persone, occupando i loro territori, controllandone le risorse economiche, estorcendone, le energie morali ed economiche, perfino scimmiottando con la pseudoreligiosità la genuina devozione popolare cristiana. Nella società “liquida” – che poco si sofferma sull’umano, si disinteressa dell’etica, eclissa la solidarietà con gli ultimi, ricerca soldi e il successo facile – Puglisi metteva al primo posto proprio la dignità delle persone, principalmente di quelle più deboli e vulnerabili, accettando per il loro riscatto offese e sofferenze quotidiane, fino all’effusione del proprio sangue.
Passi piccoli e grandi, che testimoniano un cammino ormai irreversibile: quello intrapreso dalla Chiesa sulle orme del beato martire Puglisi, ucciso la sera del suo 56º compleanno, solo perché prete, semplicemente prete. Come il pellegrino Francesco che nel santuario mariano di Fatima dice «che la tua Madre mi prenda in braccio, mi copra con il suo mantello e mi collochi accanto al tuo Cuore», così il pellegrino Puglisi – testimone secondo il cuore di Dio; timido eroe della normalità, gigante rispetto ai pigmei che lo uccisero; sacerdote da imitare più che da ammirare ed a cui essere grati e forse, nonostante il suo tragico destino, da invidiare perché visse veramente ed insegnò ai giovani il senso civico del dovere, gli ideali di moralità ed onestà – è un patrimonio a disposizione della Chiesa e della società e di chi vuole sognare di costruire un mondo migliore.
*Arcivescovo di Catanzaro Squillace e postulatore della causa di canonizzazione del beato Pino Puglisi
Fonte www.avvenire.it
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