Categorie: Italiae et Ecclesia

Don Rigoldi: rancore e perdono dietro le sbarre

«Il mio lavoro con i ragazzi in carcere? Prima di ogni altra cosa c’è un passaggio essenziale: fare in modo che si rendano conto del male che hanno fatto. Prima devono capire». Don Gino Rigoldi è forse il più conosciuto cappellano di carcere minorile in Italia. Lavora al Cesare Beccaria di Milano dove attualmente segue 52 giovani e la sua missione è quella di ottenere la loro fiducia, per poi cercare di iniziare con loro un percorso che li conduca ad avere fiducia anche della vita.

Insegnare a distinguere il bene dal male: in un carcere non è una cosa semplice.
«È un lavoro lungo e complicato perché a tanti, soprattutto quelli che si sentono più forti e più furbi, è difficile far capire che un essere umano va rispettato in quanto essere umano e quindi non va raggirato, offeso, derubato. È più facile per chi ha fatto un reato grave come la violenza o l’omicidio. Il furto o il raggiro spesso non vengono nemmeno vissuti come peccato. In questo i ragazzi del Beccaria sono come tanti adulti che rubano, raggirano e sfruttano le persone, anche legalmente, facendo valere la legge del più scaltro o del più forte; sono come certi commendatori, politici, professionisti, amministratori…».

E qual è la cosa più difficile per chi ha commesso omicidio e riconosce la colpa?
«Fanno fatica a ritrovare l’equilibrio. Il mio compito è di renderli capaci di convivere con la loro colpa. In questo senso ricevere il perdono vero e sentito da parte dei familiari delle vittime o dei sopravvissuti è sempre di grande aiuto».



È così grande il bisogno di essere perdonati?

«Molti di loro vogliono chiedere scusa, ma purtroppo nella maggior parte dei casi le loro scuse non vengono accettate, perché anche quello del perdono è un cammino difficile. E in questi ragazzi respinti la speranza di riparare resta irrisolta ».

È quando il perdono arriva?
«Ricordo un signore anziano la cui moglie era stata uccisa da un ragazzo in una scippo finito male. Durante il processo ha voluto parlare col colpevole come fosse un figlio. Ricordo anche le parole semplici di quel dialogo che commosse l’intero tribunale: ‘Vedi cosa è successo? Ora devi cercare di cambiare vita, di fare il bravo. È la cosa migliore che puoi fare per la mia Maria. Se vuoi ti aiuto anche io a trovare un lavoro…’. Questo signore si è tolto dal cuore un macigno».

Ma a chi fa più bene il perdono?
«Certamente a chi perdona, perché il rancore è un cancro che uccide. Ma posso anche dire con certezza che per quel ragazzo è stata la svolta della vita: adesso lavora, si è sposato, ha dei figli. Tutto questo perché l’aver avuto il perdono gli ha consentito di condividere un peso che altrimenti lo avrebbe schiacciato».

Vuole dire che il perdono di Dio ha anche bisogno del perdono degli uomini?
«Certamente, perché tante volte la fede non è così forte. E poi nel vissuto dei giovani è fondamentale il rapporto umano, la relazione. Del resto Gesù lega strettamente il comandamento del voler bene a Dio a quello del voler bene al prossimo: ‘Il secondo è simile al primo’ (Mt 22,39)».

Ricorda un altro momento in cui per qualcuno dei suoi ragazzi il perdono è stato essenziale?
«Ricordo di Erika che a 16 anni, nel febbraio 2001, insieme al fidanzato, uccise la madre e il fratellino a Novi Ligure. L’ho avuta con me al Beccaria. Ricordo quando il padre per la prima volta le disse che l’aveva perdonata: si capiva che era solo un perdono di volontà, non del cuore. Dopo un percorso lungo qualche anno li ho visti parlare insieme e ho capito che finalmente era perdono davvero. Perché il perdono, quello che sanifica e libera, deve giungere dal cuore. E ho visto come ha fatto bene a tutti e due, al padre e alla figlia, che ora fa la volontaria in un orfanotrofio in Brasile».

Ma allora perché la gente è così poco interessata al perdono di Dio nella confessione?
«Credo che la confessione sia poco praticata per colpa di noi preti che l’abbiamo fatta diventare un elenco di mancanze morali che a volte ha poco a che fare col percorso di preghiera e di vita nell’amore al quale siamo chiamati noi cristiani. La confessione è una cosa seria. Nella confessione siamo chiamati a metterci in gioco. Come si possono considerare confessioni quelle di cinquantenni che raccontano di aver detto bugie, di non essere andati alla messa, di aver visto immagini erotiche… Questo è non aver capito, è un fermarsi in superficie. Non è una confessione, è un disastro. Gesù non è morto per le mie bugiette o per le mie masturbazioni. Gesù è una persona seria, è morto per la giustizia, per l’uguaglianza e la carità fra le persone…».

E allora?
«Allora bisogna uscire da questo moralismo piccino che tradisce e banalizza la confessione. La gente va guidata a comprendere il senso della vita in Gesù, a comprendere cosa significa carità e preghiera. Le cose che dice papa Francesco vanno in questa direzione».

Lei cosa chiede a chi si confessa?
«Chiedo di andare al cuore della propria vita per capire che tipo di relazioni ho col mio prossimo, con le persone con cui vivo; per capire qual è il mio senso della giustizia, la mia capacità di condividere nella carità sia i beni materiali che le mie conoscenze, anche nella professione; la cura che ho della mia famiglia, di chi ha bisogno di me; il tempo che dedico al dialogo con Gesù e alla lettura del Vangelo… Questi sono i punti centrali. Certo anche la pornografia può essere un problema: molte volte diventa un varco, una porta aperta al diavolo che fa scivolare in situazioni che allontanano da Dio».

Come si arriva a confessarsi in questo modo?

«Ricominciando a predicare il Vangelo di Cristo e parlando dei comportamenti, degli stili di vita che ci allontanano dal suo amore. Al Beccaria quando parlo di Gesù mi ascoltano. È importante pure il linguaggio: da quando c’è questo Papa ai miei ragazzi posso parlare anche di Chiesa».

Cos’ha questo Papa per essere così diverso nella percezione di un giovane carcerato?
«Francesco è un po’ uno dei nostri, i detenuti lo sentono più vicino, ne percepiscono la misericordia e questo è importante per chi si sente scartato, emarginato dalle persone e dalla vita. Quando questi ragazzi capiscono che dai loro valore, che quando li guardi li vedi davvero, allora non smetterebbero mai di parlarti, ti si attaccano e sei tu che devi imparare a ‘staccare’».

Redazione Papaboys (Fonte www.avvenire.it/ROBERTO I. ZANINI)

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