Donald Trump è il 45esimo presidente degli Stati Uniti. Hillary Clinton lo ha chiamato per riconoscere la sconfitta. «Sarò il presidente di tutti, lavoreremo insieme per rinnovare il sogno americano», ha detto nel suo primo discorso il futuro inquilino della Casa Bianca, visibilmente emozionato, sul palco con la famiglia al completo.
IL PRIMO DISCORSO
«Ho appena ricevuto una telefonata da Hillary Clinton, vorrei farle le mie congratulazioni, ha combattuto con tutta se stessa. Ha lavorato sodo e le dobbiamo una grande gratitudine», ha detto Trump. Il vincitore delle elezioni presidenziali ha poi teso la mano ai democratici («è il momento di unirci e superare le divisioni») assicurando di voler «buoni rapporti con l’estero» e che «saremo giusti con tutti i popoli e le nazioni». Infine un passaggio sull’economia: «Raddoppieremo la crescita e saremo l’economia più forte al mondo».
CHI L’HA VOTATO
Dunque aveva ragione il tycoon: l’America voleva una rivoluzione e ha scelto lui per guidarla. Tutti i sondaggi che prevedevano il successo di Hillary Clinton erano sbagliati, perché la «maggioranza silenziosa» aveva già scelto. Magari la gente non lo diceva, ma lo pensava, e ieri è andata alle urne per consegnargli la presidenza. Soprattutto i bianchi della classe media e bassa, colpiti dalla crisi economica, dagli effetti negativi della globalizzazione, e dalla paura di vedere il controllo degli Stati Uniti che passava nelle mani delle minoranze.
L’ONDA POPULISTA
Ora si discuterà di quanto era debole Hillary Clinton come candidata, degli errori commessi durante la campagna elettorale, dell’impatto della lettera con cui il direttore dell’Fbi Comey aveva annunciato di aver riaperto l’inchiesta sulle mail private usate quando lei era segretario di Stato. Tutto vero, ma la vittoria di Trump è stata determinata da un vento più grande degli stessi Stati Uniti, che aveva cominciato a soffiare con la Brexit in Gran Bretagna, e ora ha raggiunto anche le coste degli Usa. Una rivoluzione populista, magari venata anche di pulsioni razziste, che però con l’ingresso di Donald alla Casa Bianca diventa il fenomeno politico dominante dell’Occidente.
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STATO PER STATO
Che fosse la notte di Trump si era capito subito. Prima da quanto era competitivo in stati come la Florida, che in teoria doveva essere spazzata via dalla mobilitazione degli ispanici contro il candidato che li aveva insultati. Poi dalla solidità delle percentuali raccolte in Ohio, a dimostrazione che l’America profonda del Midwest stava scegliendo lui. Quindi dal vantaggio accumulato in Michigan e Wisconsin, stati tradizionalmente democratici della “rust belt”, dove i colletti blu hanno abbandonato il partito che avevano votato in automatico per decenni.
BIANCHI E NERI
Queste sono le due chiavi strategiche del successo di Trump: la mobilitazione a suo favore dei bianchi della classe media e bassa, e la mancata valanga in favore di Hillary delle minoranze ispanica e nera, che avrebbero dovuto portarla alla Casa Bianca. Clinton non ha mai trovato un messaggio capace di ispirare gli elettori. Nell’anno della rivolta contro l’establishment, che era avvenuta anche nel Partito democratico attraverso il movimento costruito da Bernie Sanders, lei si è presentata, o è stata percepita, come la continuazione dello status quo rifiutato dalla gente. Donald invece ha promesso di «rifare grande l’America», anche se per alcuni questo slogan voleva dire solo restituirla ai bianchi, dopo il primo presidente nero nella storia degli Usa.
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di Redazione Papaboys fonte: La Stampa
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