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Dossier di ‘Tempi’: La mafia dei clandestini

Dossier di 'Tempi': La mafia dei clandestiniUn vero capo lo si riconosce da come tratta i suoi collaboratori. Da come li motiva, li paga, li valorizza anche se sono l’ultima ruota del carro. Il turco Muammer Kücük sa che nulla deve essere lasciato al caso, per questo ha molte persone a libro paga. A cominciare dagli osservatori. Secondo le ricostruzioni più attendibili, queste persone guadagnano tra i 700 e gli 800 dollari a viaggio. Moltiplicando per due, tre viaggi al mese e confrontando con la rendita massima di un pensionato in Turchia, che è di 500 dollari al mese, si capisce perché il lavoro, anche saltuario, per la rete di Kücük, è ambìto. E poi non c’è grande pericolo, bisogna solo guardare, non è un lavoro rischioso. Chi ti può mettere in galera perché stai semplicemente osservando un pulmino passare? Il fatto che su quel pulmino siano stipate decine di persone che cercano di raggiungere illegalmente l’Europa è un dettaglio trascurabile.

Kücük è un trafficante di uomini. La sua storia e la sua “impresa”, raccontate così, ricordano il sistema di gestione delle piazze di spaccio della camorra, così efficacemente raccontate nelle numerose versioni, cinematografiche e televisive, germinate da Gomorra, il best seller di Roberto Saviano. La differenza è che, invece della polvere bianca, Kücük e colleghi trattano una merce molto meno preziosa e più abbondante: persone che vogliono entrare in Europa. Quelle che siamo abituati a vedere nelle immagini degli sbarchi sulle nostre coste, drammaticamente uguali a se stesse, che da anni scatenano indignazione e polemiche rabbiose. Fino a che quella telenovela della disperazione non conosce lo spin off più inquietante: i viaggi su un aereo di linea, o stipati nella stiva di uno yacht di lusso. Perché, come in un mercato in cui la domanda è alta, chi controlla l’offerta si attrezza per rispondere alle esigenze di ogni tipo di cliente. Poche settimane fa lo spettatore medio di un telegiornale seguiva le sorti del traghetto Norman Atlantic, tutto faceva prevedere una variazione sul tema del caso Concordia, quando il ritrovamento di decine di clandestini nella stiva del traghetto ha fatto virare la vicenda su una rotta inesplorata.

Ed è quella rotta che bisogna seguire, se si vuole comprendere il fenomeno dell’immigrazione oltre i fermo immagine da Lampedusa. «Continuiamo a trattare con i criteri dell’emergenza un fenomeno che in realtà viviamo da decenni», osserva Andrea Di Nicola, criminologo dell’Università di Trento e autore, insieme a Giampaolo Musumeci, giornalista di Radio24, di Confessioni di un trafficante di uomini (Chiarelettere, 176 pagine, 12 euro). Uscito diversi mesi fa, il libro è stato riportato prepotentemente a galla dalla cronaca nella fortunata coincidenza editoriale della traduzione in Germania, Francia e Polonia.

All’inizio di gennaio il cargo Ezadeen è stato abbandonato dall’equipaggio a circa 40 miglia al largo di Capo Leuca. A bordo c’erano 360 persone, profughi di nazionalità siriana, lasciati al loro destino secondo una modalità scelta sempre più frequentemente dai trafficanti. Si acquista un cargo a fine carriera, lo si paga circa 150 mila dollari e con il prezzo del biglietto di ogni persona (nel caso del cargo Ezadeen si è parlato di circa 6 mila euro a testa), si realizzano ottimi guadagni. Prima di lasciare l’imbarcazione al suo destino l’equipaggio spesso affida il timone a uno dei passeggeri, in attesa che la guardia costiera individui l’imbarcazione alla deriva. Gli affari vanno talmente bene, ha spiegato la portavoce di Frontex Izabella Cooper alla Bbc, che i criminali non hanno bisogno di diversificare: «Nelle imbarcazioni non troviamo droga o armi, è un business talmente redditizio che alle organizzazioni criminali conviene concentrarsi solo su quello».Le stime su quanto valga questo mercato di uomini sono varie e spesso anche molto distanti. Un rapporto recente delle Nazioni Unite stima in 150 milioni di dollari l’anno il guadagno dei trafficanti che portano migranti dall’Africa all’Europa. «Di sicuro parliamo di una quantità enorme di danaro e di un business secondo solo a quello della droga», osserva Di Nicola, spiegando che nel libro, che è al contempo una ricerca e un reportage, si fanno i conti in tasca al più noto trafficante di uomini, quel Kücük cui si accennava all’inizio e che il criminologo descrive un po’ come il Kaiser Soze del settore. «Ultimamente sono stati arrestati trentacinque “suoi” capitani, che hanno portato in tutto venti barche. Ognuna di queste, se non la fermano, fa cinque-sei viaggi in tutta la stagione. Ogni imbarcazione porta, a singolo viaggio, un guadagno medio di circa 50 mila dollari. Fanno più o meno 300 mila dollari a stagione. Se si moltiplica per le venti barche fermate sono 6 milioni di dollari. Pensiamo che l’ultima dotazione di Frontex era di circa 90 milioni di euro». A Kücük si deve, stando a quello che si racconta di lui, una delle ultime invenzioni, quella di utilizzare gli yacht di lusso. Perché se è vero che il trafficante di uomini non ha interesse a diversificare i suoi affari, è anche vero che è alla costante ricerca di modalità nuove per portarli a termine, mettendo in campo quella flessibilità e quella capacità di innovazione che siamo soliti riconoscere alle imprese che funzionano.Chi paga di più viaggia comodo
Intorno al 2011 sono stati scoperti i primi yacht usati per il cosiddetto smuggling (termine inglese che identifica il traffico internazionale di uomini). Skipper, di solito provenienti dall’est Europa, affittano una barca di lusso. Nella documentazione che presentano alle autorità dichiarano di essere stati ingaggiati per una crociera da una famiglia benestante; saranno solo i controlli casuali a rivelare che sottocoperta non c’è nessun ricco borghese, ma qualche decina di afghani preda del mal di mare, che hanno pagato per un viaggio verso le coste italiane. Hanno speso più dei “colleghi” che si imbarcano in una bagnarola sulle coste nordafricane e meno, molto meno, di quanti pagano per un biglietto su un aereo di linea con tanto di kit di documenti falsi e finto posto di lavoro, messo a disposizione da un imprenditore italiano compiacente.Nel loro racconto, frutto di due anni di incontri con trafficanti, in carcere o nei loro luoghi di lavoro, e di contatto con le procure più esperte nel contrasto dello smuggling, Di Nicola e Musumeci raccontano il caso di Musharah, gestore di un phone center a Roma. La Digos lo incontra nel 2008 e nel corso delle indagini emerge che è il referente italiano di un’organizzazione di trafficanti. Il costo del viaggio dall’Afghanistan a un paese dell’Unione Europea andava mediamente da 6 mila a 10 mila euro a testa. Il prezzo variava a seconda del servizio: chi partiva da Atene con l’aereo e i passaporti falsi per arrivare a Roma o Milano pagava intorno ai 3 mila euro. Chi invece veniva caricato su un camion ne spendeva mille. «Musharaf ogni mese faceva entrare illegalmente tra le duecento e le trecento persone, intorno ai tremila migranti l’anno, con un fatturato che si aggirava da un minimo di 18 milioni di euro fino a 30 milioni».«Sentire i politici che si congratulano per la cattura degli scafisti fa sorridere», spiega ancora a Tempi il professor Andrea Di Nicola. «È come esultare perché si sono messi in galera dei pusher. In realtà i pesci grossi restano sempre liberi. In uno dei nostri incontri uno scafista, che ovviamente come tutti i criminali si professava innocente, si lamentava: faccio anni di galera per un viaggio che mi è fruttato seimila euro, i miei capi mi avevano detto che se mi avessero preso in prigione ci sarei stato poco, perché gli italiani sono buoni».

Gli yacht di lusso, le navi fantasma, i camion e poi tutto il prontuario di stratagemmi per nascondere le persone: cruscotti modificati, sedili sventrati, persone nascoste dentro sacchi a pelo circondati di ghiaccio per sfuggire agli scanner termici della polizia. Non c’è giorno in cui le autorità non scoprano stratagemmi nuovi e rotte alternative. Eppure il racconto del fenomeno, anche sui media, non riesce a uscire dai canoni pietistici di Lampedusa. «Siamo assuefatti a quel tipo di racconto, che però è inevitabilmente parziale. Dietro ogni volto disperato che vediamo nelle immagini degli sbarchi c’è un ricco “imprenditore” che ha intascato fior di quattrini». E come si contrastano questi geni del crimine? «Con coordinazione tra le polizie e soprattutto con gli stessi metodi investigativi che si applicano alla criminalità organizzata, come alcune procure, pensiamo a quella di Trieste, hanno avuto l’intuizione di fare».

Fonte. Tempi

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