Adriana Masotti – Città del Vaticano per Vaticannews.va
“Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo”. Sono queste parole di Gesù, riportate dall’evangelista Marco e ascoltate nella prima domenica di Quaresima di quest’anno, che il cardinale Raniero Cantalamessa commenta nella sua prima meditazione di accompagnamento al cammino quaresimale della Curia Romana. Il Vangelo riporta tre momenti diversi in cui l’appello di Gesù ritorna, il primo è all’inizio del suo ministero pubblico.
Ma che cosa significa ““Convertitevi e credete al Vangelo”? Il predicatore della Casa Pontificia spiega che prima di Gesù convertirsi significava “tornare indietro”, tornare sui propri passi, ma che con Gesù il significato cambia e “non perché egli si diverta a cambiare i significati delle parole, ma perché, con la sua venuta, sono cambiate le cose. “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è venuto!”. Convertirsi, allora, non significa più tornare indietro, “all’antica alleanza e all’osservanza della legge, ma significa piuttosto fare un balzo in avanti ed entrare nel Regno, afferrare la salvezza che è venuta agli uomini gratuitamente, per libera e sovrana iniziativa di Dio”. Il cardinale Cantalamessa prosegue dicendo che convertirsi e credere non sono due momenti successivi, ma che convertirsi è credere. “Tutto questo – afferma – richiede una vera ‘conversione’, un cambiamento profondo nel modo di concepire i nostri rapporti con Dio. Esige di passare dall’idea di un Dio che chiede, che ordina, che minaccia, alla idea di un Dio che viene a mani piene per darci lui tutto. È la conversione dalla ‘legge’ alla ‘grazia’ che stava tanto a cuore a S. Paolo”.
L’appello alla conversione ritorna quando Gesù parla con i discepoli che si domandano chi tra loro sia “il più grande nel regno dei cieli”. Gesù risponde dicendo che “se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno”. E il predicatore cappuccino dice che in questo caso si tratta davvero di tornare indietro, addirittura a quando si era bambini. “Questa – osserva – è la conversione di chi è entrato già nel regno, ha creduto al Vangelo, è da tempo al servizio di Cristo. È la nostra conversione!”. Senza di essa, una “vera rivoluzione copernicana”, non si entra nel regno. Bisogna, dice il cardinale Cantalamessa, “decentrarsi da se stessi e ricentrarsi su Cristo”. Abbandonare invidie e rivalità. Per gli apostoli significava tornare al momento della chiamata, “per noi – continua – tornare bambini significa tornare al momento in cui scoprimmo di essere chiamati, al momento dell’ordinazione sacerdotale, della professione religiosa, o del primo vero incontro personale con Gesú. Quando dicevamo: ‘Dio solo basta!’ e ci credevamo”.
Ritroviamo un terzo forte invito alla conversione nel contesto delle sette lettere alle Chiese dell’Apocalisse, rivolte a persone che nella comunità cristiana svolgevano un ruolo-guida. In particolare, secondo il porporato, fa riflettere il tono severo contenuto nella lettera alla Chiesa di Laodicea: “Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo…Poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca…Sii zelante e convertiti” (Ap 3, 15 s). La conversione in questo caso è il passaggio dalla mediocrità e dalla tiepidezza “al fervore dello Spirito”. E il predicatore della Casa Pontificia afferma che mentre sant’Agostino ci offre un esempio della prima conversione, dal peccato alla grazia, è santa Teresa d’Avila la testimonianza più istruttiva della seconda conversione. Lei stessa descrive nella Vita
il suo precedente malessere per una vita spirituale incerta, scostante, che alterna l’attrazione per Dio all’attrazione delle cose del mondo, e il cardinale Cantalamessa commenta che questo può essere per molti tra noi “il vero motivo della propria insoddisfazione e scontentezza”.Ma come operare questa conversione? Non è possibile da soli, così come da soli non ci si rialza se si cade nelle sabbie mobili. Il cardinale ricorda allora che bisogna riandare a ciò che segue le parole ”Siate ferventi”, dell’apostolo Paolo quando esortava i cristiani di Roma e cioè “nello Spirito”. E’ lo Spirito Santo, infatti, che opera in noi il cambiamento. E prosegue: “Noi siamo eredi di una spiritualità che concepiva il cammino di perfezione secondo le tre tappe classiche: via purgativa, via illuminativa e via unitiva. In altre parole, bisogna esercitarsi a lungo nella rinuncia e nella mortificazione, prima di poter sperimentare il fervore”. Questo è ancora valido, afferma il cardinale Cantalamessa, ma è anche vero che è necessario il fervore dello Spirito per giungere alla mortificazione. San Paolo scrive: “Se mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete”. Lo sforzo ascetico personale rischia di essere vana fatica, è l’irruzione dello Spirito a Pentecoste che produce un cambiamento radicale negli Apostoli, che sotto la sua azione sperimentarono una “sobria ebbrezza”, spirituale.
Il predicatore pontificio si chiede “come fare per riprendere questo ideale della sobria ebbrezza e incarnarlo nella presente situazione storica ed ecclesiale?”. Questa stessa esperienza, infatti, non è stata destinata solo agli Apostoli e riporta un brano di un antico Padre della Chiesa: “Una vita cristiana piena di sforzi ascetici e di mortificazione, ma senza il tocco vivificante dello Spirito, somiglierebbe a una Messa nella quale si leggessero tante letture (…) ma nella quale non avvenisse la consacrazione delle specie da parte del sacerdote. Tutto rimarrebbe quello che era prima, pane e vino”. I “luoghi” dove attingere lo Spirito Santo, prosegue il cardinale Cantalamessa, sono l’Eucaristia e le Scritture, ma c’è una terza possibilità: il battesimo nello Spirito. Spiega quindi che si tratta di un rito compiuto all’interno del Rinnovamento Carismatico Cattolico, “che non ha nulla di esoterico, ma è fatto piuttosto di gesti di grande semplicità, calma e gioia, accompagnati da atteggiamenti di umiltà, di pentimento, di disponibilità a diventare bambini”.
“L’interessato vi si prepara – spiega il porporato – oltre che attraverso una buona confessione, partecipando a incontri di catechesi nei quali è rimesso in un contatto vivo e gioioso con le principali verità e realtà della fede (…). Il frutto più frequente e più importante è la scoperta di che cosa significa avere ‘un rapporto personale’ con Gesú risorto e vivo”. Il predicatore francescano prosegue dicendo che questo non è comunque “l’unico modo per fare un’esperienza forte dello Spirito” e che tanti cristiani fanno un’esperienza analoga attraverso un ritiro, un incontro, una lettura. “Il segreto è dire una volta ‘Vieni, Santo Spirito’, ma dirlo con tutto il cuore, lasciando libero lo Spirito di venire nel modo che vuole lui”. Gesù, del resto, ha promesso il dono dello Spirito a quanti lo chiederanno al Padre. Se tanti cristiani lo hanno già fatto, conclude il predicatore, e sono passati dalla tiepidezza al fervore, diventando “dediti alla preghiera di lode e ai sacramenti, attivi nell’evangelizzazione e pronti ad assumersi compiti pastorali nella parrocchia”, perché non farlo anche noi?
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