Suor Fernanda e Simona sono impegnate ogni mercoledì nell’unità di strada della parrocchia San Frumenzio. «Lo “zoning” è dire sì a un crimine contro l’umanità»
Suor Fernanda ricorda in modo particolare un transessuale. «Ce ne sono pochi, sulla Salaria. All’inizio ci cacciava, poi un giorno si è avvicinato e ha detto: “Dovete insistere con le ragazze più giovani, perché poi dopo tanti anni di questa vita non ce la fai più a uscire. Invece loro, che sono ancora all’inizio, potete salvarle”». Ogni mercoledì sera, dalle 21 circa a mezzanotte, la comboniana suor Fernanda Cristinelli scende in strada, insieme a un gruppo della parrocchia San Frumenzio, per stare accanto alle ragazze che si prostituiscono.
Dopo vent’anni tra Uganda e Kenya, rientrata a Roma nel 2011 per un lavoro di coordinamento all’interno della congregazione, che ha tra le priorità la lotta contro la tratta di esseri umani, voleva fare «qualcosa di concreto anche per questo territorio». È stata suor Eugenia Bonetti, responsabile dell’Ufficio tratta dell’Unione superiori maggiori italiane, a indirizzarla verso la parrocchia ai Prati Fiscali (attualmente guidata da don Gianpiero Palmieri), dove l’unità di strada è nata tredici anni fa grazie a don Giovanni Carpentieri. Il team, che ha curato anche corsi di sensibilizzazione nei licei, oggi è coordinato dal collaboratore parrocchiale don Luca Sansalone ed è composto da una decina di persone: due suore, due sacerdoti, qualche seminarista, laici dai 28 ai 40 anni.
Tra di loro, anche Simona Buccafurni, traduttrice, che condivide questa missione con il marito da più di 8 anni. Tante cose, nel frattempo, sono cambiate: «Prima si vedeva molto di più la sofferenza fisica, sembrava di poter toccare il dolore di queste ragazze. Però, anche se oggi raccontano che sono felici, ogni tanto emerge la strazio reale: all’inizio è un ritornello di “Non trovo un altro lavoro”, “Alla fine è un lavoro come un altro”. Quando poi inizi a parlare di famiglia, e tutte hanno famiglie, figli, scopri che nessuno dei loro cari sa quello che fanno, scende una lacrima e confessano che non vorrebbero stare là». Al freddo, seminude, «tra i topi, se è il posto da occupare, senza potersi spostare neanche di un metro, chi vorrebbe mai starci?». A gruppetti, i volontari si dividono la strada da Prati Fiscali fino a Settebagni. Fatta eccezione per qualche nigeriana, le ragazze sono rumene. «Alcune, le più adulte – racconta suor Fernanda – spesso sono già state in Spagna, o nel club in Germania. Le più giovani vengono introdotte e poi spariscono, le mandano in altri Paesi europei». Tutte dicono che sono libere, che scelgono di vendersi. «Ma in realtà – spiega Simona – sono controllate a vista. Non possono incontrarci di giorno e quelle nuove, se parlano con noi più di 5 minuti, vengono interrotte da una telefonata e costrette ad allontanarsi».
Eppure suor Fernanda, Simona e gli altri non vogliono ingaggiare nessuna «battaglia di strada: portiamo solo un po’ di umanità, cercando, senza mai giudicarle, di valorizzare queste donne come persone, sennò possono dimenticare che lo sono. Ci raccontano cose, facciamo brevi preghiere. Dicono ai clienti di aspettare, se stanno parlando. Lasciamo loro il numero di un cellulare, se hanno bisogno di aiuto o visite mediche. Qualcuna chiama».
In tanti anni, solo un paio hanno iniziato un percorso di liberazione dalla schiavitù del marciapiede, mediante associazioni ad hoc: Simona non dimentica una nigeriana che si era ribellata alla sua maman ed era stata sfregiata ovunque. «Quando sento che la “zona rossa” consentirebbe un maggiore controllo, a me viene da ridere», confessa suor Fernanda: «Eur o Salaria non fa differenza: qui costantemente passano macchine di carabinieri e polizia, ma non cambia niente. E lo “zoning” equivale a dire “sì” a un crimine contro l’umanità, perché questo è la tratta degli esseri umani e la prostituzione altro non è. O forse se c’è il decoro urbano il crimine diventa meno grave?». Simona non sa, «dopo una vita così, cosa possa restare a una donna di se stessa: quando una di loro sale su una macchina, ogni volta, io mi sento male. A certe cose non ci si abitua mai».
di Lorena Leonardi per RomaSette