JOBS ACT & DINTORNI – Il giuslavorista Michele Tiraboschi analizza la riforma del lavoro. Perplessità sulla scelta del contratto unico, sulla scorta degli effetti della legge “Fornero” che ha ristretto le partite Iva e i contratti a progetto. La critica più severa: “Il compromesso raggiunto non ha sciolto il nodo dell’articolo 18”. Rimarrà in vigore per i vecchi assunti, creando una situazione di dubbia costituzionalità
Licenziabilità per i nuovi assunti senza la tutela dell’art. 18 (salvo in caso di discriminazione o per mancanza di giusta causa), nuovi ammortizzatori sociali, contratti a tempo indeterminato “a tutele crescenti”, nuove “politiche attive” per il lavoro: sono i contenuti principali del Jobs Act del governo Renzi, approvato alla Camera e che la prossima settimana dovrebbe essere varato anche dal Senato. Su pregi pregi e difetti di questa novità si esprime il docente di diritto del lavoro alle università di Modena e Reggio Emilia, Michele Tiraboschi, già stretto collaboratore del giuslavorista Marco Biagi, ucciso dalle Brigate Rosse.
Col Jobs Act e il contratto di lavoro a tutele crescenti siamo sulla strada buona per uscire dalla crisi del lavoro in Italia?
“È difficile al momento dare una risposta su provvedimenti complessi e che attendono il perfezionamento parlamentare e il varo delle deleghe. Comunque, a parte lo spirito di fiducia che si deve avere di fronte a ogni riforma i cui obiettivi appaiono condivisibili, se entriamo nei dati di fatto oggettivi la valutazione rischia di essere un po’ negativa. Infatti, negli ultimi 5 anni, questa risulterà la quinta legge di riforma del lavoro. C’è stato un grosso sforzo legislativo ma con risultati tutt’altro che brillanti. È quindi lecito interrogarsi se una legge possa davvero creare posti di lavoro”.
Le aziende, sia quelle sotto i 15 dipendenti, sia quelle sopra, paiono caute nel giudizio. Qualcuno nota che in realtà saremmo di fronte a una “Fornero” rivista e corretta, ma non molto…
“Se io fossi un imprenditore sarei molto preoccupato dagli esiti di questa legge, perché in realtà ha un impianto molto simile alla ‘Fornero’. Tutti hanno potuto constatare i danni fatti da quest’ultima con un unico contratto a tempo indeterminato e il restringimento di partite Iva e contratti a progetto e vari. Di fatto ciò ha prodotto la perdita di posti di lavoro, e intanto non si vedono all’orizzonte i correttivi alla stessa ‘Fornero’”.
Ma la riforma viene sbandierata come una grande novità: forse non è così?
“Il compromesso raggiunto non ha sciolto il nodo dell’articolo 18, che rimarrà ancora in vigore per molti anni, forse decenni, per i vecchi assunti, creando una situazione di dubbia costituzionalità. Le aziende infatti dovranno gestire il personale con due diversi regimi e tra l’altro i giudici, di fronte a controversie, avranno spazio per agire in tutte le direzioni proprio alla luce dei due regimi vigenti. In realtà il nostro Paese avrebbe avuto bisogno di una vera svolta, basata su imprese innovative, nuovi mestieri, digitale, infrastrutture, logistica, piano-scuola, spending review, piani industriali settoriali, tecnologie, agricoltura; insomma di una grande politica di sviluppo che valorizzi i nostri punti di forza”.
Lei dice: prima incentiviamo lavoro e investimenti e poi facciamo le regole: ma in Italia non è andata così. Come rimediare?
“Il Jobs Act inventato negli Usa nel 2011 prevedeva 447 miliardi di dollari per sostenere imprese e settori innovativi. Anche lì non tutto è andato liscio, però oggi quel paese cresce quasi al 4%, e con esso l’occupazione. Da noi invece si è puntato sulla rinuncia all’art. 18, cosa in sé positiva, ma tradita in parallelo dal fallimento clamoroso di ‘Garanzia Giovani’. I soldi ci sarebbero, ben 1,5 miliardi, ma non riusciamo a spenderli perché Governo e Regioni dimostrano di non essere in grado di prendersi in carico orientamento, qualificazione e accompagnamento dei giovani. Non siamo ancora pronti a passare alla modernità”.
Perché negli Usa si assume a tutto spiano e da noi no?
“Perché siamo due mondi e due culture diverse. Là pressoché tutti lavorano anche offrendo lavori a tempo parziale, salari ridotti, grande flessibilità. Nel Dna delle persone c’è il cambiamento di occupazione, casa, stato, mentre da noi c’è una cultura ‘provinciale’, piuttosto statica”.
Le aziende obiettano che le indennità sostitutive del reintegro sono troppo alte. È vero?
“Alla base c’è che il Paese non cresce e quindi non c’è slancio produttivo che si traduca in assunzioni. Gli indennizzi previsti, comunque, mi sembrano leggermente più alti di quanto avviene in altri Paesi”.
Altro punto delicato è la discrezionalità dei magistrati nel decidere sui reintegri. Lei cosa ne pensa?
“Credo che tali margini rimangano molto alti. Dopo la riforma rimarranno 8 milioni di lavoratori sotto la tutela dell’art. 18 e anche per i nuovi la formula di compromesso raggiunta dalla direzione del Pd dà ancora grossi margini al magistrato. Forse si doveva agire di più con l’arbitrato interno alle aziende”.
Ci dice in poche parole tre contenuti della sua “ideale” riforma del lavoro?
“Primo, potenziare l’alternanza scuola-lavoro. Da noi i giovani hanno troppa teoria e poca pratica. Secondo: smetterla di scrivere regole che vengono modificate l’anno dopo. Così, direi, iniziamo a far funzionare ‘Garanzia Giovani’, visto che i soldi ci sono. Terzo: identificare percorsi innovativi, quali un ‘servizio civile’ sulla tutela del territorio o la cura della persona o il risparmio energetico. Del resto pensiamo all’enorme costo di tenere inattivi 2,5 milioni di ragazzi. Uno spreco umano enorme!”. di Luigi Crimella per Agenzia Sir