Uno dei racconti meno citati e più belli dello scrittore e filologo inglese J.R.R. Tolkien (1892-1973) s’intitola “Foglia” di Niggle. Datato 1938-1939, fu pubblicato per la prima volta nel 1945. Un pittore, Niggle, dipinge una foglia; il quadro cresce, cresce, diventa un albero maestoso, poi una selva, così ricca di particolari, talmente lussureggiante di dettagli che il dipinto non viene mai terminato.
Sembra il paradosso della Mappa dell’Impero in scala 1:1 contenuto nel frammento Del rigore della scienza, l’ultimo di Storia universale dell’infamia, pubblicato per la prima volta nel 1935 e poi riveduto e corretto nel 1954 dallo scrittore e poeta argentino Jorge Luis Borges (1899-1986). Solo che dove in Borges il paradosso esemplifica la vanità di un’impresa prometeica, in Tolkien l’opera che cresce come cosa viva è l’allegoria dell’infinto. Giunse poi il giorno in cui a Niggle toccò di partire per l’ultimo viaggio; pensava di avere sprecato l’esistenza rincorrendo un mito incapacitante e invece, premio per una vita spesa bene, gli fu concesso di entrare nel proprio stesso quadro, di viverlo, di spaziare per sempre nella sua infinità. L’universo in cui viviamo è come il quadro di Niggle più la Mappa dell’Impero, ma concreti, meravigliosi, stupefacenti, sorprendenti, e noi già li abitiamo.
Lo testimoniano una volta in più i Premi Nobel 2017 per la Medicina e per la Fisica. Il primo è stato assegnato lunedì 2 settembre dal Karolinska Institutet di Solna, a pochi chilometri da Stoccolma, in Svezia, ai ricercatori statunitensi Jeffrey C. Hall, Michael Rosbash e Michael W. Young scopritori dei meccanismi che presiedono ai ritmi circadiani degli esseri viventi. Il secondo è stato conferito martedì 3 dall’Accademia reale svedese delle scienze di Stoccolma ai ricercatori, pure statunitensi, Kip Thorne, Barry Barish e Rainer Weiss per la conferma (grazie ai rivelatori americani Ligo e all’italiano Virgo) di quanto previsto dalla teoria generale della relatività formulata più di un secolo fa dal fisico tedesco naturalizzato prima svizzero poi statunitense Albert Einstein (1879-1955): le onde gravitazionali esistono.
I ritmi circadiani del Nobel per la Medicina sono le cadenze che regolano le abitudini fisiologiche dei viventi nell’arco delle 24 ore a fronte dell’alternanza luce/buio. Tutto è iniziato con l’astronomo francese Jean Jacques d’Ortous de Mairan (1678-1771), notissimo per gli studi sul ghiaccio e sulle aurore boreali, ma anche con la nostra pochezza di uomini comuni. Infatti, in pieno secolo dei lumi, d’Ortous de Mairan si accorse che le piante di mimosa si aprono in direzione del sole durante le ore di luce per poi richiudersi la notte; ma noi tutti siamo affascinati sin da che eravamo piccoli dalle distese estive dove biondeggiano i girasoli che il dì sorridono paffuti al Sole e al tramonto si congedano per il “sonno” del giusto. Da tempo si è scoperto che il regolatore di questi meccanismi è un gene, detto period; ai tre Nobel statunitensi è dunque toccato il merito di avere individuato il modo in cui esso agisce codificando una proteina che, accumulandosi negli organismi di notte per poi diminuire il dì, produce i suddetti comportamenti biologici.
Le onde gravitazionali del Nobel per la Fisica sono invece le “increspature” prodotte dallo scontro fra masse enormi, per esempio due buchi neri, nel continuum spaziotempo, vale a dire quel modello matematico in cui lo spazio tridimensionale e il tempo non sono dimensioni separate bensì interconnesse e dinamiche che si allungano e si accorciano. Assai flebili, per essere registrate le onde hanno dovuto attendere l’avvento di apparecchiature sofisticatissime.
Ora, parrebbero entrambe mere questioni per specialisti. In parte lo sono. Però in parte piccola. In parte grande sono invece finestre su un universo incredibile, letteralmente: cioè un universo a cui verrebbe istinto di non credere tanto è fantastico.
Da un lato la ricerca empirica sulla fisiologia – se vogliamo quanto di più materiale e meccanico esista – rivela che tutto è regolato. Che il corpo dei viventi segue uno schema preciso. Che l’essere umano è presieduto da una biologia raffinatissima. Che c’è un ordine meticoloso. Che c’è una natura per cui la realtà, e in essa principalmente l’uomo, è quello che è senza che nessuno possa farci niente. Che tra universo (il Sole) e l’uomo, apparentemente diversissimi, c’è invece una corrispondenza intima che nemmeno il più sofisticato dei calcolatori potrebbe programmare. Come si legge nelle motivazioni del Nobel, «la vita sulla Terra è adatta alla rotazione del nostro pianeta», esempio rotondo di simbiosi universale, di reciprocità perfetta, il fine-tuning supremo accordato sul grande diapason cosmico.
Dall’altro le onde gravitazionali tengono viva la memoria di eventi colossali, anche passati, anche delle origini. «La prova che le collisioni fra buchi neri producono onde gravitazionali fa sperare pure che gli scienziati trovino onde gravitazionali provenienti dai primi istanti dell’universo», afferma Jeff Zweerink, astrofisico dell’Università della California di Los Angeles. Infatti, se le onde gravitazionali confermano la relatività einsteniana, confermano anche il modello cosmologico postulato dalla relatività einsteniana che è quello di un universo che ha avuto un inizio. E davanti a un universo che ha avuto un inizio, la ragione empirica si ribella all’ipotesi che non esista un iniziatore. Fra orologio biologico e onde gravitazionali, insomma, ogni secondo che passa la parola “caso” si allontana sempre più dal nostro habitat.
Fonte www.lanuovabq.it