Queste rivalità e queste differenze di impostazione si vedono nettamente comparando le due maggiori formazioni jihadiste: la storica al-Qaeda, che ha portato alla ribalta il concetto di jihad globale, e il più recente Stato islamico (Dawlat al-Islamiyya), noto con la sigla di Is. Sotto la guida di Osama Benladen, al-Qaeda ha irrimediabilmente cambiato la storia del nuovo secolo con gli attentati del settembre 2001. Ma, allo stesso tempo, ha finito con il mutare se stessa: la reazione statunitense e occidentale ha scompaginato l’organizzazione e imposto una profonda revisione della sua struttura. Con i suoi capi storici uccisi o ridotti a una silenziosa latitanza, al-Qaeda si è decentralizzata, a favore di una struttura più informale e orizzontale.
A lungo è sembrata operare secondo un sistema di “franchising”: di fatto il vertice gerarchico (con a capo l’egiziano al-Zawahiri) permette agli affiliati l’uso del proprio brand, con uno scarso controllo sulle operazioni delle cellule locali. Spesso, ha formalizzato l’affiliazione di gruppi che sembrano operare del tutto indipendentemente, come gli shabaab nel Corno d’Africa, al-Qaeda in Magreb (Aqim) o Jabhat al-Nusra in Siria. Ma, nonostante i cambiamenti cui è stata costretta, l’organizzazione sembra ancora ancorata al proprio pensiero fondativo, basato sull’idea di jihad globale reso necessario dall’attacco senza quartiere che l’Occidente avrebbe lanciato per distruggere l’Islam. Un jihad che deve combattersi su due fronti: quello esterno, contro l’Occidente, e quello interno, contro gli apostati e i musulmani che si sono piegati ai propri nemici.
Benladen e al-Zawahiri hanno sempre sostenuto l’importanza di privilegiare il nemico esterno contro quello interno, concentrando gli sforzi per colpire i soldati degli Stati Uniti e dei suoi alleati in Medio Oriente o per lanciare attacchi direttamente in Occidente. Al contrario, l’Is del califfo al-Baghdadi privilegia un’altra strada. L’organizzazione attuale è figlia della guerra in Iraq contro le forze anglo-americane che avevano detronizzato Saddam Hussein.
Portato tristemente alla ribalta dal suo capo al-Zarkawi fra il 2004 e il 2006, il movimento era nato come filiazione di al-Qaeda, prendendone addirittura il nome: “al-Qaeda nella Terra dei due Fiumi”. Ma ben presto la strategia di al-Zarkawi, basata su di una violenza diretta soprattutto contro il nemico interno, per far esplodere lo scontro settario fra sunniti e sciiti, aveva provocato l’abiura della leadership qaedista. La morte di Zarkawi nel 2006 e il miglioramento dello scenario di sicurezza in Iraq sembravano aver portato alla scomparsa virtuale di questo movimento.
Tuttavia, lo scoppio della guerra civile in Siria e la ripresa del conflitto tra musulmani in Iraq hanno rilanciato il movimento
, conosciuto ora come Stato islamico. Il suo leader, al-Baghdadi, sembra aver ben imparato dagli errori dei predecessori, come dimostrato dai suoi successi militari e mediatici dello scorso anno. L’Is – rispetto ad al-Qaeda – ha realizzato una politica che potremmo definire “glocal” (sia locale sia globale): pur predicando il jihad planetario, si è infatti dedicato con grande attenzione alla creazione di una rete di consenso circoscritto, nelle zone sunnite fra Siria e Iraq. Ha rafforzato le proprie capacità militari – grazie a spregiudicate alleanze con elementi ex ba’thisti, ossia lontanissimi dalla sua visione islamista – cercando nel contempo di apparire come una forza di governo credibile nelle zone “liberate”, ove ha creato una polizia religiosa e forme di amministrazione statuale. L’annuncio di un nuovo califfato serve proprio a rafforzare le credenziali di Is quale modello politico veramente islamico e lontano dalle contaminazioni dello stato nazionale di derivazione europea.Al fianco di questo attivismo, vi è un uso spregiudicato e massiccio del terrore, con la manipolazione psicologica dell’opinione pubblica internazionale attraverso i media. Basti pensare alle esecuzioni ritualizzate dei prigionieri occidentali e alla diffusione di riviste on-line del movimento. Tutto ciò è servito primariamente a due scopi: da un lato, subentrare ad al-Qaeda come gruppo jihadista più temuto (o ammirato), scatenando un effetto imitativo e di sostegno (cellule create in suo nome, fondi, volontari, proselitismo…) che ha unito la dimensione locale a quella regionale e internazionale. Dall’altro, celare la realtà del disegno di Is che ha di fatto rovesciato la filosofia qaedista di privilegiare il nemico esterno: il movimento di al-Baghdadi, infatti, si dedica quasi esclusivamente allo sterminio del nemico interno, soprattutto sciita.
Proprio per via di questo suo focus contro gli sciiti e le altre minoranze musulmane, Is ha goduto – se non di un vero appoggio – per lo meno di un atteggiamento ambiguo da parte della potenze sunnite in Medio Oriente (Arabia Saudita e Turchia in primis). Ma proprio il suo successo ha finito con l’erodere i suoi margini d’azione. L’Arabia Saudita – stretta fra Is al nord e al-Qaeda in Yemen – ha avviato ormai da tempo una più decisa azione anti-jihadista, tanto a livello dottrinale-politico, quanto militare. Una scelta che sarà certo portata avanti dalla nuova dirigenza dopo la morte del re Abdallah. E la Turchia, forzata dagli alleati Nato, ha stretto i controlli lungo le proprie “autostrade del jihad”, la via privilegiata dei jihadisti europei per andare e tornare dalle zone di guerra. Ma anche al-Qaeda ha reagito, cercando nuova visibilità con l’attivismo delle sue tante cellule locali, mentre evidenzia le incongruenze dottrinali e ideologiche di Is.
Gli attentati di Parigi e quelli falliti in Belgio dimostrano come l’attivismo jihadista crei pericolosi effetti imitativi su scala globale. Allo stesso tempo, ci sta spronando ad agire con più decisione contro l’Is, tanto a livello militare (con i bombardamenti di una estesa coalizione), quanto a livello di intelligence e politica. Se saremo efficaci, anche Is rischia di trovarsi nelle stesse condizioni in cui si trovò al-Qaeda dopo gli attacchi a Washington e New York, ossia oggetto di una violenta campagna anti-terroristica che può disarticolarne la struttura, eliminando quella specificità nel “mercato del terrore” che ne ha finora decretato il successo.
Di Riccardo Redaelli per Avvenire
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