Si è spento questa notte a Roma all’età 92 anni il dottor Renato Buzzonetti, che dal 1978 era stato medico di san Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Nato a Roma il 23 agosto 1924, Buzzonetti era andato in pensione nel giugno 2009.
Per ventisei anni medico principale di Karol Wojtyla, per quattro di Joseph Ratzinger e, prima, del beato Paolo VI, come secondo del dottor Mario Fontana, e di Albino Luciani. Benedetto XVI gli aveva concesso il titolo onorifico di archiatra pontificio emerito. Parlando al microfono di Tiziana Campisi, di San Giovanni Paolo II, il dottor Buzzonetti lo aveva definito “un testimone di una fede incrollabile sino al termine della sua vita terrena” e si era soffermato sul rapporto tra Papa Wojtyla e la sofferenza.
R. – Se è vero che il medico conosce la morte e deve, quanto più possibile, aiutare l’uomo a varcare questa soglia misteriosa, io ho sempre detto che assistere alla morte di un uomo fa sfiorare il mistero di Dio perchè in effetti la morte di una creatura umana, in qualche maniera, è un’icona della passione e della morte del Signore. Però stare accanto ad un Papa che muore è qualcosa di più perché – io ne ho la sensazione quasi fisica – è la morte di un uomo che lascia le chiavi del Regno dei Cieli, quelle chiavi di cui tutti abbiamo fatto tesoro e si presenta veramente povero al giudizio di Dio e a quello di tutta la Chiesa. Chi ha toccato il corpo del Papa morente ha toccato le sue piaghe che c’erano, di queste piaghe nessuno ha mai parlato, ma c’erano anche le piaghe vere, quelle che sanguinano, e non perché ci fossero fenomeni misteriosi.. erano fenomeni puramente medici, ma c’erano le piaghe e quindi il dolore delle piaghe. Chi ha ascoltato le sue ultime parole biascicate in polacco, porta dentro di sé un’esperienza che non si può cancellare ma nemmeno troppo facilmente comunicare agli altri.
D. – Che tipo di paziente era Giovanni Paolo II?
R. – Era un paziente buono, si faceva visitare, collaborava, raccontava con esattezza i suoi disturbi, anzi era molto attento e vigile sui suoi malesseri piccoli e grandi perché voleva guarire presto e voleva aiutare il medico a trovare il bandolo della matassa dei suoi disturbi. Certo, come tutti i malati, non amava le iniezioni endovenose, però il resto della terapia, che poi è anche quella più pesante, più difficile da sopportare, lo accettò senza fare difficoltà fino alla tracheotomia. Si fece spiegare da me in cosa consistesse e quale era lo scopo, e dopo qualche minuto di riflessione e di silenzio diede il suo benestare.
D. – Che cosa invece lei ha imparato da Karol Wojtyla?
R. – Anzitutto a fare meglio il medico, cioè a ricordarmi che ogni malato ha gli stessi privilegi e diritti che può aver un Papa, nel senso che dinnanzi al medico, tutti i malati, i più poveri, i più dimenticati, sono anch’essi fratelli miei e figli di Dio. La sostanza è che il medico serve l’uomo, questo ho imparato. Poi dal Papa Giovanni Paolo ho appreso il suo grande spirito di fede, questa fede di acciaio che lo ha sostenuto in tutta la vita nei capitoli che ci hanno raccontato i libri, i film… questa fede veramente incrollabile che lo portava ad accettare e sopportare, non solo il male fisico, ma anche la difficoltà di un ministero estremamente impegnativo e anche rischioso.
Fonte it.radiovaticana.va
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