A partire dal 26 marzo, i dialoghi saranno seguiti anche da John Kerry, segretario di Stato Usa, e dal ministro degli esteri iraniano Mohamed Javad Zarif. Entrambi hanno espresso cauto ottimismo su un possibile accordo, che potrebbe vedere la sua forma definitiva il prossimo 30 giugno.
Ma vi è chi rema contro. Vi è anzitutto negli Usa una fronda repubblicana capeggiata dal senatore John McCain, che ha giurato di “fare tutto quanto è in nostro potere” per fermare l’accordo o per sottometterlo al voto del Senato dove i repubblicani hanno la maggioranza.
Un altro grande nemico dell’accordo è Israele e il suo premier Benjamin Netanyahu, che ha addirittura minacciato un attacco aereo contro i siti atomici di Teheran. Israele è accusato perfino di aver spiato l’andamento dei dialoghi per trovare modi di bloccarlo o indebolirlo. Tutta la campagna elettorale di Netanyahu è stata basata sulla “minaccia iraniana” e sull’ “incubo nucleare”, senza toccare i temi più vicini quali l’economia e escludendo la questione della pace fra Israele e Palestina.
Vi è poi l’Arabia saudita. Ieri il capo della diplomazia saudita, Saud al-Faisal, ha dichiarato che non bisognava dare all’Iran “un accordo che esso non merita”, dato che Teheran “diffonde politiche aggressive nella regione, interferisce in modo costante negli affari dei Paesi arabi e cerca di suscitare conflitti confessionali”.
L’impressione che si ha è che i nemici dell’accordo abbiano motivi ulteriori all’accordo stesso e le difficoltà che essi mettono di fronte non sono strettamente legati al programma nucleare iraniano.
Quanto alla sua reale consistenza e minaccia, i membri dell’Aiea, l’agenzia Onu per l’atomica, hanno sempre affermato che nelle visite ai diversi siti sospettati di arricchire uranio in funzione militare, non hanno mai trovato elementi pericolosi. Lo stesso Netanyahu, che tre anni fa all’Onu aveva dichiarato che l’Iran avrebbe avuto una bomba nucleare in pochi mesi, è stato smentito dall’intelligence israeliana. Lo scorso aprile a Teheran, il nunzio Leo Boccardo – che è stato diversi anni osservatore vaticano alla Aiea di Vienna – ha detto ad AsiaNews che “in tutta la documentazione dell’Aiea, nelle centinaia di ispezioni da essa fatte, non vi è una sola prova che l’Iran stia preparando una bomba nucleare”.
Vero è che l’Iran, soprattutto durante la presidenza di Mahmud Ahmadinejad, non ha fatto nulla per cancellare i sospetti del mondo rivendicando il diritto alla bomba al pari di Israele (unico Paese del Medio oriente con ordigni nucleari), frenando le visite dell’Aiea, minacciando Israele, negando l’Olocausto. Ma ormai l’Iran di Hassan Rouhani appare desideroso di essere riaccolto nella comunità internazionale, lanciando segnali distensivi in tutte le direzioni: verso Israele, gli Stati Uniti e perfino verso l’Arabia saudita.
L’Iran sta svolgendo anche un’opera di mediazione nel Medio oriente. Grazie ad esso, Bashar Assad ha sottoscritto la Convenzione sulle armi chimiche e ha smantellato il suo arsenale. Teheran ha ridotto il potere delle milizie religiose sciite in Iraq, aiutando la creazione di un governo più inclusivo anche dei sunniti. In più, esso sta combattendo le ventate violente dell’Isis (lo Stato islamico) in Iraq e in Siria. Proprio questo ultimo impegno, in qualche modo rende Teheran più vicina all’occidente di quanto non lo sia l’Arabia saudita che mantiene una profonda ambiguità nella sua posizione verso lo Stato islamico.
E se anche dovessimo valutare le cose dal punto di vista della libertà religiosa garantita ai cristiani, Teheran vincerebbe senz’altro. In Arabia saudita è proibito edificare chiese (non esistono); è proibito indossare segni religiosi; è proibito tenere immagini sacre nelle proprie case; è proibito fare raduni religiosi nelle case private. In Iran le chiese non hanno la libertà di fare missione, ma perlomeno possono esistere: vi sono chiese, raduni, preghiere e i cristiani vivono in tutta sicurezza.
di P.Bernardo Cervellera per Asia News
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