Quando preghi non spremerti le meningi per trovare le parole più adatte. A volte un semplice balbettio di bimbo basta a placare il Padre dei cieli…”. Per caso ho letto, dalla “Scala del Paradiso”, questo passo di Giovanni Climaco, grande testimone dell’antica spiritualità orientale. E, subito, mi è tornato alla mente un singolare episodio di qualche anno fa. Era una domenica, stavamo uscendo dalla Messa. Un’amica, chiamiamola Carla, si voltò all’improvviso verso di me, e con gli occhi bassi e un filo di voce mi chiese: “Ma tu, come gli parli? Che cosa gli dici? E pensi davvero che Lui sia lì ad ascoltarti?”. Ci misi un po’ a capire che voleva sapere di come io pregassi, di come mi “comportassi” in quel momento.
Carla – donna in gamba, professoressa universitaria, e sicuramente brava cristiana – non lo aveva confidato né al confessore né al marito né all’amica del cuore. Probabilmente per pudore, o perché si vergognava, temendo di passare per ridicola, per infantile. E perciò aveva scelto me, uno della cerchia dei conoscenti più stretti e, avrà pensato, più discreti. Ma, invece di sentirmi gratificato per la scelta, provai una gran pena a sentire il turbamento di quella donna. “Prima era più facile: chiedevo, domandavo per ogni più piccola necessità. Anzi, qualche volta, arrivavo perfino a pretendere. Ma adesso? Adesso che penso o almeno mi illudo di avere una fede più matura, e vorrei confrontarmi con Lui, non so che dire, non trovo le parole. E così, è come se lo allontanassi ancora di più”.
Non è certo una esperienza da generalizzare. E tuttavia, nel suo piccolo, ci aiuta a capire come la preghiera personale soffra oggi di una forte crisi. E, questo, a differenza di quella comunitaria, che grazie al Concilio Vaticano II – e alla ritrovata centralità della parola di Dio – ha conosciuto una sorta di risveglio a vari livelli: come quello liturgico, anche se non poche Messe oggi sono così anonime, così “incolori”; poi, per la rigogliosa fioritura delle scuole di preghiera, dei centri di spiritualità.
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E partendo proprio dagli Stati Uniti, quindi in controtendenza rispetto a una società marcata dal consumismo e dalla tecnologia, la nascita di gruppi e movimenti, come i Carismatici, che fanno della preghiera la base fondamentale per un rinnovamento della vita spirituale.
Per la preghiera personale, invece, c’è anzitutto il problema di sempre, dovendo questo incontro “a tu per tu” fare i conti con la invisibilità di Dio. E’ inevitabile che chi prega possa venir colto dal dubbio di trovarsi davanti, non a un vero interlocutore, bensì al “vuoto”. E, questa difficoltà primordiale, si è ulteriormente acuita dopo che nel pensiero moderno è caduta la nozione di trascendenza. Così, sotto i colpi successivi dell’ateismo, della mentalità tecnico-scientifica, del materialismo, e di un attivismo esasperato (“C’è bisogno di tranquillità e di pace per aprirsi alle cose divine”, ricordava San Tommaso), l’uomo si è andato svuotando della propria interiorità: con una progressiva attenuazione, perciò, della visione religiosa del mondo e della vita. “Morto Dio”, dicevano i teologi della secolarizzazione, è morta anche la preghiera. Ma, il declino della preghiera personale, non è dovuto solo a cause esterne, ai rivolgimenti culturali, sociali, antropologici.
Per troppo tempo, infatti, la preghiera è stata considerata e praticata in senso individualistico, utilitaristico: la preghiera solo come “domanda”, come “richiesta”, e mai come “lode”, come “ringraziamento”; quindi, espressione di una religiosità superficiale, se non concepita come qualcosa di magico. O, per reazione, una preghiera identificata sostanzialmente con l’impegno sociale, politico. “Lavorare è pregare”, si diceva in diverse parrocchie e comunità di base. Con il risultato che l’azione finiva per diventare una alternativa alla preghiera; quindi, espressione di una religiosità per certi aspetti snaturata, recisa della sua dimensione contemplativa, trascendente.
Ma i guai peggiori sono cominciati con il crescere di intere generazioni di cristiani “analfabeti”: cristiani che hanno dimenticato in fretta ciò che avevano appreso al catechismo, e, pur continuando a frequentare la parrocchia, sono rimasti all’ABC della fede. E come conseguenza di questo, o quanto meno come causa collaterale, c’è stata l’interruzione di quella naturale catena di trasmissione che una volta era la famiglia, e soprattutto erano le mamme che insegnavano ai loro figli a pregare: così accade che siano sempre più numerosi i bambini, i quali, affacciandosi ai corsi di preparazione per la Prima Comunione, spesso non sappiano recitare neppure il Padre Nostro o l’Ave Maria. Bambini che, una volta diventati grandi, e prigionieri della civiltà scientifica, non avranno le parole per aprire un colloquio con il mistero divino, non sapranno cosa dire. Ma, prima ancora, non saranno capaci di mettersi in ginocchio, di levare le mani verso l’Assoluto, di dargli del “tu”.
“Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava.” Gli evangelisti, e Marco in particolare, ci raccontano della preghiera di Gesù, dall’inizio della vita pubblica, testimoniando come fosse sempre una preghiera solitaria, non liturgica. Perciò, è difficile pensare che un seguace del Vangelo possa vivere la fede senza ripetere, nel proprio intimo, l’esperienza del “deserto” fatta da Gesù. Difficile anche pensare che, un vero rinnovamento spirituale, possa realizzarsi soltanto attraverso le riforme, le istituzioni, i riti, la vita morale: e non, in primo luogo, con la preghiera.
Dunque, la preghiera pubblica, comunitaria, collettiva. E cioè, lapreghiera che è manifestazione fondante del radunarsi insieme della comunità, nell’ascolto della parola di Dio, nel segno della fraternità, nella frazione del pane, nell’apertura agli altri, superando così ogni tentazione individualistica. E, insieme, la preghiera personale, silenziosa. E cioè, la preghiera intesa come autentico atto di contemplazione, nel quale si cerca di fare un “incontro” più profondo con Dio, di “respirare” con Dio. Ma, si potrebbe anche dire, la preghiera come “condizione” originaria dell’umanità; come esigenza insopprimibile dell’uomo di ogni tempo, al di là delle vicende storiche, culturali e sociali.
Insomma, il credente (ma spesso anche chi è lontano dalla fede, anche l’agnostico, per il bisogno che sente dentro, bisogno perlomeno di riflessione, di silenzio) non potrà mai fare a meno di pregare. E se ha difficoltà a farlo, a trovare le parole, allora la cosa migliore sarà quella di ricominciare da capo, di imparare di nuovo a pregare. Come del resto dovrebbe fare ogni nuova generazione cristiana, secondo forme e modalità adatte alla sua mentalità, alle sue esigenze spirituali. Ma senza mai dimenticare che pregare non è tanto parlare a Dio (con il rischio, oltretutto, di finire per parlare solo con se stessi) quanto piuttosto ascoltare Dio che ti parla. Pregare non è tanto andare a cercarsi il “posto” migliore per farlo (se uno ne sente la necessità, diceva il cardinale Jean-Marie Lustiger, può pregare anche in metropolitana) quanto piuttosto entrare nel “cuore” del Padre. E abbandonarsi nelle sue braccia.
Di Gian Franco Svidercoschi per Aleteia
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[box]Gian Franco Svidercoschi è stato inviato dell’Ansa al Concilio Vaticano II e vice direttore de “L’Osservatore Romano”. È considerato il biografo di san Giovanni Paolo II, con cui ha collaborato alla stesura del libro “Dono e Mistero”. È possibile scrivergli all’indirizzo e-mail: gf.svidercoschi@libero.it
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