A un anno dal decesso, sono proprio i minori che, morti, rimasti orfani o stigmatizzati, rappresentano la fascia sociale più colpita dalla malattia. Le cifre sono agghiaccianti. Secondo le organizzazioni umanitarie, circa 5 milioni di bambini non hanno potuto iniziare la scuola nei Paesi più colpiti da ebola. Mentre almeno 20mila minori sono senza genitori a causa del virus.
«Diverse scuole in Guinea, Liberia e Sierra Leone sono chiuse per paura dell’epidemia», sostiene una recente relazione pubblicata dalla Global business coalition for education (Gbce). «Le varie strutture destinate all’istruzione e alla pubblica amministrazione hanno interrotto i lavori perché temono di aumentare le possibilità di contagio. Adesso – precisa lo studio – questi edifici sono utilizzati come centri di raccolta per i pazienti di ebola».
Ad oggi, sono 6.331 le vittime e 17.800 i casi di contagio registrati. Ma c’è chi sostiene che tali cifre siano sottostimate. Diversi malati, infatti, non hanno accesso alle strutture sanitarie. Inoltre, nonostante i decessi e la diffusione del virus rappresentino la realtà più visibile della febbre emorragica, le conseguenze sono altrettanto drammatiche. Soprattutto per i più giovani.
«Non andare a scuola può avere un gravissimo impatto sui bambini più vulnerabili – spiega il rapporto scritto insieme all’associazione “A world at school” –. Specialmente per le ragazzine, che corrono alti rischi relativi soprattutto a matrimoni precoci e gravidanze». È un ciclo vizioso quello che sta minacciando il contesto sociale dei più poveri nei tre Stati dove l’ebola sta seminando terrore. «Con le scuole chiuse a tempo indeterminato – afferma l’ex premier britannico Gordon Brown, l’inviato speciale dell’Onu per l’istruzione globale –, si rischia di invertire anni di progressi nel settore dell’istruzione in una zona già precaria rispetto ai sistemi scolastici».
Proprio ieri, l’organismo per l’infanzia delle Nazioni Unite ha definito il 2014 come «un anno devastante per i bambini». Almeno 230 milioni di essi vivono in Paesi affetti da conflitti armati. Anche la Liberia e la Sierra Leone erano teatri di guerre civili che, durante gli anni Novanta, hanno provocato centinaia di migliaia di morti. Le popolazioni locali sono tutt’ora traumatizzate e devono affrontare la “nuova guerra” del virus. Molti hanno paragonato la lotta contro l’ebola all’atmosfera di terrore che si respirava durante quei conflitti. Come fino a una decina di anni fa, per esempio, sono migliaia i minorenni rimasti orfani.
«Osservando i dati raccolti dal nostro team – ha recentemente confermato Tom Dannatt, direttore dell’organizzazione inglese “Street child” –, emerge che già 20mila bambini sono orfani di genitori e senza nessuno che si prenda cura di loro. E il numero sta evidentemente crescendo giorno dopo giorno».
Sono anche numerosi i casi in cui, quando si riesce a guarire dall’ebola, parenti e amici non riescono più a vederti come la stessa persona. I coniugi spesso vivono in stanze o case separate, mentre i bambini vengono allontanati dai loro genitori e coetanei. Lo stesso comportamento discriminatorio è diretto verso il personale medico, locale e straniero, che cura i pazienti affetti dal virus. «È molto importante capire le radici di tale stigma e lavorare per combatterle – ha avvertito il mese scorso David Nabarro, l’inviato speciale dell’Onu per l’emergenza ebola –. Tutti noi abbiamo un ruolo per provare a ridurre questi esempi di discriminazione. Siamo tutti nella stessa barca».
Di Matteo Fraschini Koffi per Avvenire
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