Si sono rimarginate, nel mondo cattolico, le ferite aperte dalle campagne referendarie sul divorzio e sull’aborto? Sono rimaste aperte quelle ferite, si sono cronicizzate o si sono invece definitivamente sanate? Per rispondere a questa domanda, è probabilmente opportuno distinguere la questione divorzio da quella dell’aborto: e il fatto che quest’anno ricorra l’anniversario della prima delle due battaglie referendarie giustifica, almeno provvisoriamente, questa distinzione. Sembra un’evidenza consolidata che oggi, per la quasi totalità degli italiani, quella dell’indissolubilità del matrimonio non sia più una questione reale e aperta. Gli anni passati dall’approvazione della legge Fortuna-Baslini e dal referendum sul divorzio (ben quaranta!) sono davvero tanti, cronologicamente e ancor più sociologicamente: per tutti coloro che oggi hanno raggiunto la mezza età, pensare a un’Italia “senza divorzio” è come pensare a un’Italia (come, ad esempio, quella “sabauda”) che si sa bene che è esistita, ma con la quale non si ha più un rapporto personale e reale. Se però rinunciamo a valutazioni generalizzanti (che, pure, sono più che legittime) e prendiamo in considerazione situazioni di carattere particolare, vediamo che le cose non stanno sempre così.
Consideriamo il mondo dei giuristi cattolici (la cui associazione, l’Ugci, cioè l’«Unione Giuristi Cattolici Italiani», costituita subito dopo la fine della guerra, gode tutt’ora di ottima salute). Come molte altre ben note associazioni cattoliche (mi limito a citare l’Azione Cattolica o le Acli) anche l’Ugci entrò con forza nei dibattiti intensissimi che precedettero l’approvazione della legge sul divorzio e fu tra le associazioni che promossero il referendum per l’abrogazione della nuova legge divorzista. Vi entrò in modo pubblico ed esplicito, con delibere unanimi, tutte caratterizzate da presupposti dottrinali assolutamente limpidi, quali la difesa del dettato costituzionale (col suo esplicito riferimento alla famiglia come «società naturale») e l’affermazione del fondamento giusnaturalistico e quindi non confessionale dell’ indissolubilità (presupposto che spiega la presenza, tra i promotori del referendum, di personalità non riferibili alla Democrazia cristiana e all’associazionismo cattolico, tra le quali, a quel tempo, la più nota all’opinione pubblica era probabilmente la senatrice socialista Merlin). Non mancarono però, nemmeno per l’Unione giuristi cattolici, lacerazioni e sofferenze, riconducibili alle posizioni di diversi intellettuali (e non pochi teologi) che davano al principio dell’indissolubilità una valenza altissima sì, ma essenzialmente spirituale; una valenza che essi ritenevano paradossalmente umiliata, quando, per tutelarla, si fosse fatto primario riferimento a uno strumento “coercitivo” come quello della legge dello Stato. Furono posizioni di minoranza, che però attivarono orientamenti e prese di posizione, che si manifestarono con evidenza ancora più forte quando, alcuni anni dopo, il problema referendario si ripropose a carico della legge sull’aborto.
L’interpretazione storiografica prevalente in merito all’introduzione del divorzio in Italia è quella che la vede come una delle tappe decisive e irreversibili del processo di secolarizzazione che nella seconda metà del Novecento ha caratterizzato il nostro Paese (e non poteva non caratterizzarlo, secondo i fautori di questa lettura). Non voglio prendere posizione al riguardo, anche se mi rendo benissimo conto di quanto forte sia questa lettura degli ultimi decenni: credo però che non si tratti di una lettura che ben si adatti al mondo del diritto: e mi riferisco non solo ai giuristi cattolici e alle loro controversie interne, ma all’universo, ben più ampio, dei giuristi non cattolici (ma non per questo necessariamente anticlericali) cultori del diritto di famiglia. Se ci immergiamo nelle diatribe dense e intricate di quaranta e più anni fa, percepiamo un dato che ha un suo rilievo: sia i giuristi antidivorzisti, che quelli divorzisti erano convinti di combattere una battaglia a favore del matrimonio. Semplicemente, si dividevano – e accanitamente – sulle modalità strategiche ottimali per vincere questa battaglia. Gli anti-divorzisti partivano ovviamente dall’idea che il matrimonio andasse difeso come indissolubile, non però perché il divorzio ne minacciasse il ruolo sociale (ritenuto concordemente insostituibile), ma perché la legislazione divorzista indeboliva fatalmente la sua finalità generazionale e danneggiava il coniuge più debole (la donna). Ma anche i divorzisti erano pienamente convinti che bisognasse difendere il matrimonio: in questo senso anche essi sostenevano che non si dovesse mai procedere al riconoscimento di un divorzio meramente «consensuale». Per i giuristi cattolici “divorzisti”
la migliore difesa del coniugio era però quella capace di riconoscere la dissolubilità come soluzione estrema per i casi di fallimento completo e oggettivo di un’unione coniugale, casi in cui il permanere del vincolo non potesse sotto alcun profilo giovare più né al coniuge più debole, né ai figli.Negli anni dei dibattiti sul divorzio sembra che né i giuristi antidivorzisti, né quelli divorzisti abbiano avvertito il fenomeno che si stava manifestando in tutte le società occidentali (indipendentemente dalla presenza in esse di normative divorziste più o meno ampie), un fenomeno che in pochi anni sarebbe cresciuto in modo irresistibile: quel vistoso e inaspettato processo che la sociologa francese Irène Théry ha efficacemente denominato démariage, cioè dematrimonializzazione. Possiamo anche fare ricerche sul numero sempre più crescente dei matrimoni che si concludono con un divorzio (e dare così ragione agli anti-divorzisti, che hanno sempre richiamato l’attenzione su quanto una legislazione sullo scioglimento del matrimonio lo renda fragile come istituto). Quello però che non possiamo negare è che la questione prioritaria oggi non è il dilagare dei divorzi, ma l’agonia del «matrimonio legale», che porta irresistibilmente con sé il dilagare di una crisi demografica, della cui gravità solo ora, e a fatica, l’opinione pubblica comincia a prendere coscienza. Siamo arrivati a un punto tale che quella che fino a pochi anni fa era solo una facezia, peraltro di dubbio gusto (“oggi il matrimonio è agognato solo dai gay”) si sta manifestando come una dinamica sociale di pesante rilievo. L’affermazione palesemente provocatoria fatta nel 1974 da Amintore Fanfani sul Corriere della Sera e cioè che, dopo il divorzio, sarebbe arrivato in Italia il matrimonio tra omosessuali (affermazione che all’epoca attirò sul leader democristiano espressioni di sdegno e di irrisione) andrebbe oggi ritenuta “profetica”.
Lo smarrimento dei giuristi, posti di fronte a questa dura realtà, è impressionante. Lo dimostrano i deboli dibattiti italiani, di queste ultime settimane, sul “divorzio breve”, nei quali la voce dei giuristi si è sentita ben poco. L’individualismo che caratterizza le società secolarizzate consente che si dia al matrimonio (istituto eminentemente relazionale e di conseguenza radicalmente anti-individualista) un rilievo residuale, tutt’al più simbolico, di minima valenza sociale. Possono avere un futuro le società «dematrimonializzate»? Certamente no. Ma un’eventuale (e ormai urgente) «rimatrimonializzazione» delle società occidentali richiede che tutto l’istituto del matrimonio vada profondamente ripensato e preso sul serio, anche per quel che concerne le dinamiche divorziste. Ossessionati come siamo dai problemi dell’economia sembra che non siamo più capaci di percepire come alla base dell’economia stia la famiglia e alla base della famiglia stia il matrimonio e la sua capacità di “durare”. Avevano ragione i giuristi cattolici antidivorzisti: quella del matrimonio è questione antropologica, prima che confessionale. E poiché le difficoltà del presente, prima che confessionali, sono antropologiche, c’è da essere profondamente inquieti. di Francesco D’Agostino
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