Dopo aver rapidamente accennato ai costumi raffinati del giovane e alla mercatura esercitata nella bottega paterna, Bonaventura racconta come un giorno un uomo semplice, ispirato da Dio, stese in terra al suo passaggio un mantello, annunciandogli cose meravigliose.
Francesco, ignaro del disegno divino, mutò la condotta di vita finora seguita, quando d’improvviso cadde malato. Una volta guarito s’imbatté in un povero cavaliere e lo rivestì dei suoi abiti. La notte seguente gli apparve in sogno un palazzo colmo di armi crocesegnate, che interpretò come un invito a indossare la croce. In breve, l’autore del programma iconografico estrapolò il soggetto dei primi tre quadri da tre momenti concatenati di un solo episodio.
Le primissime righe della biografia non presentano avvenimenti altrettanto pregnanti da offrire alla meditazione dei fedeli. Salvo il ricordo della compagnia di gaudenti frequentata dal giovane e l’episodio poco edificante del povero cacciato di bottega perché chiedeva l’elemosina, al quale troppo tardi Francesco offrì una mancia generosa. Da qui l’importanza attribuita all’omaggio di un semplice. Un episodio del tutto marginale nella vita di Francesco, un incidente, una pia bugia diventata la molla, il dito di Dio che ne travolge l’esistenza.
Francesco è figlio di un ricco mercante di stoffe, ma sogna di cambiare classe sociale e diventare cavaliere. È ammirato da tutti: è bello, è ricco, è generoso, ma compie d’istinto scelte impreviste delle quali è il primo a stupirsi. Un giorno incontra per strada un matto, uno scemo che passa – beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3) – che gli stende ai piedi un mantello come se avesse visto Cristo alle porte di Gerusalemme. Bonaventura non spiega dove avvenne questo incontro.
Poteva essersi svolto nel sagrato della cattedrale o nella piazza antistante la residenza vescovile, o in un vicolo qualunque, ma al pittore fu chiesto di ambientare l’episodio nella cornice della Piazza del Comune: un vasto spazio di forma allungata che corrisponde alla terrazza centrale della città antica, un tempo dominata dal pronao di un tempio e circondata da portici.
Alla caduta dell’Impero romano, la piazza fu progressivamente occupata dalle abitazioni dei nobili, salvo uno slargo antistante il tempio trasformato in chiesa cristiana. La rinascita della piazza nelle dimensioni originarie è legata alle origini del Comune medievale: logica conseguenza dei disordini esplosi nel 1198 tra la nobiltà tedesca e il popolo di Assisi, che vide il coinvolgimento di Francesco.
Nel 1212 i monaci benedettini di San Benedetto al Subasio cedettero in enfiteusi ai consoli del Comune il casalino di San Donato, cioè la cella del tempio, mantenendo l’uso delle camere tra le colonne. La cella diventò la residenza del Podestà, salvo una parte adibita a carcere.
Nel 1228 il Comune acquistò alcune case antistanti il tempio per ampliare la piazza. Nella stessa occasione fu liberato il vestibolo tra le colonne, che diventò la sede dell’arengo. In seguito furono costruiti la torre del Popolo e il palazzo del Capitano, a completare la fronte a monte di questa magnifica piazza, tra le più belle dell’Italia medievale.
Nel primo episodio della Leggenda Francescana le sedi del governo comunale sono dipinte pietra su pietra: le colonne con i capitelli corinzi del tempio romano, la canna altissima della torre del Popolo dominata dalla cella campanaria, le lapidi colorate con gli stemmi che identificano la città e i suoi magistrati confuse nel paramente lapideo. Pietre che gridano all’ingresso di Francesco come le pietre gridarono all’ingresso di Cristo a Gerusalemme (Lc 19, 40).
Francesco non occupa il centro della scena, se ne sta da una parte; dall’altra c’è un uomo che ha steso in terra il suo mantello; ai lati ancora quattro magistrati che assistono ammirati all’incontro. Sopra il mantello s’innalza come un sole il pronao di un tempio antico: “Però chi d’esso loco fa parole, non dica Ascesi, ché direbbe corto, ma Oriente, se proprio dir vuole” (Paradiso, XII, 52-54).
Con questo dipinto ha origine la storia del vedutismo, cioè la pittura di paesaggio con precise raffigurazioni di città, nella grande stagione del Rinascimento seguita al tramonto del medioevo. È una allegoria del “Buon Governo”, la prima che si conosca nella pittura italiana, e è intimamente legata alla vicenda umana del santo di Assisi. Non a caso Bonaventura, nell’incipit della Legenda maior, esordì dicendo “Vi era, nella città di Assisi, un uomo di nome Francesco”.
Fonte www.sanfrancescopatronoditalia.it/Elvio Lunghi
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