Pubblichiamo l’intervento di Giancarlo Cesana, professore di Igiene all’Università di Milano Bicocca e presidente Fondazione Policlinico di Milano, all’incontro “Educare alla libertà” organizzato venerdì 23 maggio a Padova dalla Fondazione Tempi. Siamo qui oggi è per cercare di capire, di fronte alle problematiche poste dall’avvento dei cosiddetti “nuovi diritti”, come se ne esca. Oppure, più semplicemente, come sopravvivere in questo mondo che è stato così ben descritto dall’autore non credente Aldous Huxley quando, già prima della Seconda guerra mondiale, ne previde lo sviluppo descrivendolo come una stanza in cui sempre di più si alza il pavimento dei diritti e si abbassa il soffitto dei doveri. Per farlo, vorrei partire da un brano contenuto nelle letture di queste settimane che precedono la Pentecoste, in cui san Paolo dice che Cristo ha vinto la morte e che alla morte è stato sottratto il suo “pungiglione”, che è il peccato, e la forza del peccato, che è la legge (cfr 1Cor 15,51-58). Io credo, infatti, che qualunque cosa uno possa pensare a riguardo delle questioni che abbiamo detto, tutti ci soffocano. Il problema, dunque, è come si esce da questa condizione di soffocamento. Dove la prima necessità è educare alla libertà, riconquistare questa parola che tutti usano e tutto ormai giustifica, senza però rendersi più conto di che cosa significa. E senza rendersi conto, soprattutto, di che cosa significhi educare alla libertà.
L’ipotesi di partenza-. Per educare alla libertà, bisogna ritenere che la libertà esista. Ciò significa che la persona, ciascuno di noi, io e gli altri, non siamo determinati esclusivamente dai nostri antecedenti, cioè dalla nostra struttura genetica e psicologica. Certamente il corredo genetico dice qualcosa di importante della persona, ma non è tutto. Questo è il motivo per cui la Chiesa definisce la persona come nata veramente nel momento in cui muore: in un certo senso, è solo quando muore, quando cioè è compiuto il suo destino, che si vede che cosa veramente essa sia. Ritenere che la libertà esista, quindi, significa affermare che gli antecedenti non sono tutto. Ricordo l’esempio che faceva sempre don Giussani quando ci invitava a immaginare di nascere dalla pancia della mamma con l’età che abbiamo ora. «Supponete di nascere, di uscire dal ventre di vostra madre all’età che avete in questo momento, nel senso di sviluppo e di coscienza così come vi è possibile averli adesso. Quale sarebbe il primo, l’assolutamente primo sentimento, cioè il primo fattore della reazione di fronte al reale? Se io spalancassi per la prima volta gli occhi in questo istante uscendo dal seno di mia madre, io sarei dominato dalla meraviglia e dallo stupore delle cose come di una “presenza”. Sarei investito dal contraccolpo stupefatto di una presenza che viene espressa nel vocabolario corrente della parola “cosa”. Le cose! Che “cosa”! Il che è una versione concreta e, se volete, banale, della parola “essere”. L’essere: non come entità astratta, ma come presenza, presenza che non faccio io, che trovo, una presenza che mi si impone» (Luigi Giussani, Il senso religioso, Rizzoli). Dopo di che può arrivare un camion – perché la vita è come un camion che ti viene addosso e ti spiana – e finisce. Ma, come diceva Anna Vercors ne L’annuncio a Maria di Paul Claudel: «Forse che il fine della vita è vivere? (…) Non vivere ma morire e dare in letizia quel che abbiamo. Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna!». Questa, dunque, è la prima opzione con cui uno deve fare i conti nel vivere. Non si tratta di una scelta filosofica, di un programma di vita, ma della decisione da prendere di fronte a se stessi, di fronte ai figli e alla moglie. Che cosa sorregge la vita? L’impeto iniziale per cui tu dici che la vita è bella, per cui il bambino che viene al mondo immediatamente riscontra una corrispondenza, o tutto quello che viene dopo e che, poco o tanto, la contraddice e sembra cancellarla? Se la vita fosse la seconda ipotesi, non ci sarebbe speranza e non ci sarebbe libertà. Cioè tutto sarebbe fissato dagli antecedenti e, fondamentalmente, da quell’antecedente che l’uomo si porta dentro e per il quale è destinato a morire. Addirittura, dice la scienza, i cromosomi hanno una lunghezza nella parte finale tale per cui uno muore prima e un altro muore dopo. E comunque nessun uomo è mai vissuto più di 120 anni.
Allora il problema è se la libertà esiste e fa decidere per la prima ipotesi, cioè per il desiderio di infinito e di compimento che è in noi come più forte della morte. A vedere le cose che non vanno sono capaci tutti. Il problema è vedere le cose che vanno e, su queste, giocare la vita. Il giudizio che rompe la schiavitù. La seconda scelta che dobbiamo compiere – e che viene immediatamente dopo anche per chi ha già deciso che ciò che vale nella vita è il positivo, la corrispondenza – ha a che fare con un aspetto incancellabile della vita. Mi riferisco al fatto che prima non c’ero, adesso ci sono, poi non ci sarò più: la struttura fondamentale dell’uomo è di carattere dipendente. Non mi sono fatto da solo. Tutto l’insegnamento di don Giussani. Il senso religioso e la ripresa che ne fa nel capitolo ottavo de All’origine della pretesa cristiana, è centrato sulla considerazione che siamo dipendenti e che – pur optando per l’infinità del nostro desiderio, rispetto alla paura che ci fa venire la morte e al terrore che abbiamo della contraddizione – noi non vinciamo né la morte né la contraddizione, che comunque ci sovrastano, ci mettono sotto. Noi dipendiamo da qualcosa d’altro perché la vita non ce la diamo noi. C’è qualcos’altro, dunque, che compie la libertà e quel desiderio di infinito che noi siamo, qualcosa che si erge sia sopra noi sia sopra la natura. Qualcosa che è più grande di noi, della natura e che giudica di noi e della natura. Questo quid è l’unica cosa che può permettere la non schiavitù sugli antecedenti e che alla schiavitù di come siamo fatti, di noi stessi e degli altri, non sia preclusa una scintilla. Che non sia preclusa una scintilla nemmeno alla persona più pazza, allo schizofrenico che fissa la luce perché la luce balla, per cui anche lui possa aderire alla terapia. O il bambino che fa i capricci possa dire di sì. Ecco, che ciò sia possibile, però, dipende dal nostro riconoscimento di ciò da cui siamo dipendenti e da cui tutto dipende. Si tratta di una nostra adesione, della capacità di riconoscere ciò che è bene, immedesimarsi in esso e trattenerlo. Come ha detto san Paolo: «Vagliate tutto e trattenete ciò che vale» (cfr 1Ts 5,21). Don Giussani commentava che questa è la più grande definizione di cultura che avesse mai sentito. E, secondo me, lo è ancora. Perché in questo vagliar tutto e trattenere il valore sta il giudizio, sta ciò che ci rende padroni della realtà, ciò che ci rende liberi. C’è un valore che è più grande di noi rispetto al quale noi dobbiamo volgerci e dobbiamo imparare a trattenerlo, perché questo giudizio è ciò che fa crescere la libertà. La libertà, infatti, cresce, non è qualcosa che è data una volta per tutte. O meglio, è data una volta per tutte come potenzialità, ma non come esperienza, come esperienza del bene. Noi normalmente identifichiamo la libertà con il fatto di scegliere, ed è vero. Ma questo è solo l’aspetto iniziale della libertà, di quando la realtà è confusa, quando c’è la nebbia e devi decidere se l’ombra che vedi è un toro o casa tua. Il rischio della libertà sta nella confusione della vita. Invece, la libertà come realizzazione è l’esperienza in cui tu sperimenti ciò che è bene per te, ciò che è dato per te. E quanto più tu sai apprezzare questo e impari a riconoscerlo, tanto più si costruisce il giudizio e il protagonismo della vita, cioè si riesce a vivere non da schiavi. Perché il fattore della libertà è il giudizio, ma il giudizio nasce come riconoscimento di qualcosa a cui noi apparteniamo.
Partecipare alla verità-. Allora questo qualcosa d’altro da cui tutto dipende e a cui tutto è sospeso, che è il vero Signore delle cose, deve essere partecipabile, deve essere cioè qualcosa di cui io posso partecipare, con cui io posso convivere; altrimenti tutta la coscienza di me, della mia libertà, del fatto che dipendo, diventa tragedia. Come, per esempio, dimostra tutta la religiosità greca e pagana e come dimostra tutta la religiosità in cui la verità è fondamentalmente inaccessibile, qualcosa che, se c’è, tuttavia non potrà mai far parte di me, o meglio, io non potrò mai stare con lei. Se non c’è questa possibilità, tutto il discorso che abbiamo fatto sulla libertà è solo una potenzialità che a poco a poco sfiorisce, si spegne, si “sgasa”. A ciò che è invisibile io devo poter partecipare in via di ciò che è visibile. Come evocativamente suggerisce Dostoevskij ne I fratelli Karamazov: se il leone sta con la gazzella e il lupo con l’agnello, ma io sono morto, mi dovete svegliare, perché lo devo vedere, perché se non lo vedo non posso credere a questa possibilità impensabile. Allo stesso modo, ci deve essere la possibilità di vedere il vero, di potervi partecipare, di poterlo vivere, praticare, aderire, di potersi correggere. Altrimenti cadiamo nel nichilismo che oggi ci caratterizza tutti, per cui non c’è più nulla per cui valga la pena vivere. La descrizione di questi quattro punti è fondamentalmente la descrizione del cristianesimo, cioè del fatto che il Verbo si è fatto carne, è diventato qualcosa di partecipabile, per cui la verità si è attaccata all’uomo. Non all’uomo in generale, ma si è attaccata a me, a te, perché senza di me e di te, non potrei vederla, non potrei viverla, non potrei parteciparvi. Questo non vuol dire che io sia la verità o che tu sia la verità, ma che misteriosamente la verità è attaccata a noi.
L’Europa appiattita-. Mi interessa far capire che i quattro punti che ho appena descritto sono le condizioni per cui nella vita, esistenzialmente e non teoricamente, la libertà possa essere vissuta, praticata e proposta. Questo oggi è negato. Ciò che abbiamo detto, inoltre, ha delle implicazioni profonde anche con le radici dell’Europa. Come riporta il volantino della Compagnia delle Opere per le elezioni Europee citando una frase di Guardini: «L’Europa ha fatto emergere l’idea della libertà – dell’uomo come della sua opera. Ad essa soprattutto incomberà, nella sollecitudine per l’umanità dell’uomo, pervenire alla libertà anche di fronte alla sua opera». L’Europa è proprio il luogo dove questa idea della libertà è stata messa a frutto in via delle sue radici cristiane. Ed è stata così sviluppata, che a un certo punto è addirittura impazzita. Oggi si cerca, infatti, di costituire l’Europa in nome di una libertà che non riconosce più la sua radice, non si capisce più di che cosa è fatta e diventa, a poco a poco, una nuova schiavitù. L’Europa così diventa quella casa in cui il pavimento dei diritti si alza e il soffitto dei doveri si abbassa. Tutto questo in nome del principio di uguaglianza, del fatto che tutti devono essere uguali. Non dimentichiamoci però che in Russia, ai tempi del comunismo, una delle frasi che si dicevano di più era “è lo stesso”. Così è oggi in Europa: ti piacciono gli uomini? Va bene. Ti piacciono le donne? È lo stesso. Ti piacciono i bambini? È tutto lo stesso. Questo principio di uguaglianza è l’abolizione della differenza, non è effettivamente un principio di uguaglianza, ma l’affermazione di un principio di autosufficienza. In questo senso l’Europa sta negando la sua radice, perché afferma tutti questi “nuovi diritti” come principio di autosufficienza che fonda l’eguaglianza.
Un esempio-. Nelle scuole di formazione e nelle università l’educazione è totalmente ridotta a psicologia: l’insegnamento della pedagogia, infatti, si è diviso in pedagogia generale, che è il corrispondente della fisiologia medica, e in pedagogia speciale, che è il corrispondente della patologia. Ciò significa che tutto il discorso dell’educazione è impostato attraverso il modello medico e il modello medico è che la fisiologia e la patologia dipendono dagli antecedenti. Appunto, la libertà non c’è più. E per tutto, non solo per le questioni del gender! Tutta la difficoltà educativa del mondo di oggi è data proprio dal fatto che non esiste più la libertà. Mia nonna aveva fatto la terza elementare, ma aveva un’idea chiarissima di cosa fosse la libertà, che oggi in generale non c’è più: ci scandalizza il concetto di inferno, o di punizione, o il fatto che l’uomo possa violare ciò in cui crede. Ricorderò sempre che don Giussani, a un incontro degli esercizi delle suore rosminiane, disse: «Finalmente ho capito perché c’è l’inferno. Perché Dio ha amato di più la nostra libertà che non la nostra salvezza». Dio vuole qualcuno che lo ami, come noi vogliamo qualcuno che ci ami, cioè che metta in gioco la sua libertà. Qualcuno che non agisca solo sulla base delle determinazioni della psicologia, degli interessi o delle convenienze; vogliamo che ci sia qualcosa di più grande, persone capaci di fare quello che è necessario per realizzare il bene, capaci di sacrificio, cioè di seguire e di amare la verità più di se stessi. Vogliamo che ci sia ancora questa possibilità. Noi dobbiamo cercare di difendere, anche adesso che ci sono le elezioni, tutte queste cose. Don Giussani una volta ha detto che potrebbero volerci anche 7 o 8 secoli per riprendere. Andiamo verso tempi effettivamente bui, ne sono sempre più convinto, ma cerchiamo almeno di permettere che ci sia un po’ di luce perché si possa stare nella realtà vedendo come è fatta. Anche il discorso sull’ideologia di genere – qui sta la sua gravità – non è che il punto di arrivo di una lunga infiltrazione della mentalità, dell’educazione, della pedagogia, della filosofia, del pensiero e della politica. E ora siamo arrivati a un punto tale per cui viene contraddetta persino la questione più evidente, che è la natura delle cose, come son fatte le cose. Non ci si ferma più di fronte a niente. Ma il destino di questo non aver più timore di niente è l’infelicità, perché si traduce in un’incapacità di gustare la vita; ci rende simili, come evoca la Bibbia, «a un eunuco che vuole violentare una vergine» (cfr Sir 20,4). È – ahimè – la direzione verso cui stiamo andando.