La stessa sera della scomparsa di Emanuela Orlandi, il 22 giugno 1983 intorno alle 20,30 (nemmeno due ore dopo che è stata vista uscire dalla scuola di musica a Sant’Apollinare, dietro Piazza Navona), uno sconosciuto chiama il Vaticano e chiede di parlare urgentemente con il segretario di Stato, cardinale Agostino Casaroli. Ha qualcosa di importante da comunicare, dice. Ma Casaroli è in Polonia con Giovanni Paolo II, per una visita ufficiale. E le suore di turno al centralino non danno gran peso alla telefonata: ogni giorno c’è qualcuno che vuole parlare con il Papa o qualche alto prelato, insomma è pieno di spostati. Dunque, girano la chiamata alla Sala Stampa, ancora aperta. Ma a chi gli risponde, l’anonimo interlocutore consegna un messaggio tutt’altro che vago: Emanuela è stata rapita.
Attenzione però, a quell’ora in casa Orlandi sono solo preoccupati per il ritardo inspiegabile di Emanuela. I genitori, il fratello, non si sono ancora mobilitati per setacciare Roma. E in Vaticano la telefonata viene classificata come uno scherzo di dubbio gusto. Ma il 23 giugno, dopo che per una notte intera i gendarmi hanno lasciato un portone aperto per consentire a familiari e amici di entrare e uscire, il Papa viene informato della telefonata e di quello che sta accadendo. La notizia gliela danno sull’aereo che lo sta portando a Roma insieme al cardinale Casaroli e al sostituto alla Segreteria di Stato, arcivescovo Eduardo Martinez Somalo. E qualcuno decide subito di far calare il silenzio su quella telefonata di cui non si è mai saputo nulla per 35 lunghissimi anni, fino ad oggi.
Sulla oscura vicenda di Emanuela, la Santa Sede ha sempre fatto sapere di avere trasmesso alla magistratura italiana ciò di cui era a conoscenza o poteva essere conservato negli archivi. Poco o niente in verità, ma è un fatto che in quel poco non ci sia alcuna traccia della telefonata di cui l’Huffpost è venuto a conoscenza. Un elemento cruciale che avrebbe potuto indirizzare le indagini in modo diverso e pone una serie di interrogativi, anche se rivela una apparente sprovvedutezza e improvvisazione del telefonista che certo sa qualcosa ma non sa della assenza del cardinale Casaroli e probabilmente non è nemmeno convincente al punto da far sospettare ad uno scherzo. Ma ora il silenzio di questi 35 anni autorizza altri interrogativi. Chi ricevette quella comunicazione? Perché gli investigatori non ne furono informati? Che dettagli fornì l’anonimo interlocutore? A chi fu trasmesso l’appunto preso in Sala Stampa?
Per cercare di rispondere ad alcune di queste domande già da un anno il legale della famiglia Orlandi, l’avvocatessa Laura Sgrò dello studio Bernardini de Pace, ha fatto una richiesta di accesso a tutti gli atti sul caso Orlandi direttamente al Segretario di Stato, ma non ha ancora avuto alcun riscontro ufficiale. E come mai solo un anno fa è stato sempre il legale della famiglia Orlandi a presentare per la prima volta una formale denuncia di scomparsa di Emanuela, che in tutto questo tempo nessuno in Vaticano aveva fatto? Perché su questo mistero che angoscia la famiglia e l’opinione pubblica le autorità della Santa Sede insistono sulla linea impopolare di un ostinato silenzio? Cosa c’è da nascondere, visto che ormai tutti sanno che proprio il cardinale Casaroli decise allora di aprire una linea diretta con chi poteva avere notizie di Emanuela e un codice di riconoscimento (il 158) e la registrazione di alcune telefonate prova che una trattativa ci fu?
Dopo 35 anni e l’archiviazione dell’inchiesta della Procura di Roma, la storia di Emanuela è ancora apertissima. Ma solidi sono i muri che si alzano di fronte ad ogni possibilità di far luce sulla sua fine. L’ultimo è tutto italiano, e inspiegabile. La mancata autorizzazione alla avvocatessa della famiglia Orlandi del permesso per incontrare Pippò Calò, ex cassiere di Cosa Nostra, detenuto nel carcere di Opera in regime di 41 bis, che due mesi fa si era detto disposto a parlare della scomparsa di Emanuela. Una voce per nulla marginale quella di Calò, dato che negli anni Settanta e Ottanta era lui, per conto di Cosa Nostra, a trattare con lo Ior, la banca vaticana gestita da Paul Marcinkus, il discusso monsignore che faceva affari sporchi con esponenti del crimine organizzato (a cominciare dalla Banda della Magliana) e della finanza corrotta legata alla P2 (come il presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi, poi “suicidato” sotto al ponte dei Frati Neri di Londra con una corda al collo e due mattoni in tasca).
Gli intrecci criminali con la vicenda di Emanuela sono evidenti da anni. Non per caso Enrico De Pedis, detto “Renatino”, uno dei fondatori della Banda della Magliana, fu sepolto proprio nella basilica di Sant’Apollinare, nel cui complesso c’era anche la scuola di musica da cui scomparve Emanuela. E alla famiglia fu possibile usufruire di quell’eccezione straordinaria grazie ad una dispensa ad hoc firmata dal cardinale Ugo Poletti, vicario del Papa per la città di Roma. Che la Banda della Magliana fosse coinvolta nel mistero della scomparsa di Emanuela fu chiaro da subito ai nostri servizi segreti, secondo cui un’organizzazione criminale molto più potente (la ‘ndrangheta, forse) aveva chiesto ai “romani” di intervenire per utilizzare Emanuela – viva o morta – come merce di scambio per recuperare una grossa somma di denaro da riciclare (si parlava all’epoca di 130 miliardi), affidata a monsignor Marcinkus e sparita nel buco nero del crac da 1.200 miliardi del Banco Ambrosiano di Calvi.
Oggi la notizia di quella telefonata fatta appena due ore dopo la scomparsa di Emanuela, quando nessuno ancora immaginava cosa sarebbe accaduto, è un altro tassello incredibile di un giallo senza soluzione su cui il Vaticano non sembra disposto ad aprire i propri archivi. Per continuare a fare pressione sulle autorità della Santa Sede, questa sera alle 18,30 il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, ha organizzato una manifestazione in Piazza Giovanni XXIII. Qualcuno sarà finalmente disposto ad ascoltare la sua richiesta di verità e giustizia?
Fonte www.huffingtonpost.it