Cambiare si può. “I dati Istat di oggi non destano alcuna sorpresa, non sono che la spia di fenomeni strutturali che da tempo stanno mutando il tessuto economico nazionale”, commenta il presidente nazionale delle Acli, Gianni Bottalico
, che scompone i dati Istat in una situazione lavorativa molto più composita: “Nel 2011 – osserva citando il recente Rapporto sui redditi di lavoratori e famiglie, curato dalle Acli in collaborazione con l’Università Cattolica – il 7,2% dei giovani fino a 29 anni ha dichiarato di aver avuto tre o più rapporti di lavoro e il 24,1% ne ha dichiarati due. Per converso poco più di 3 giovani su 10 ha dichiarato un solo rapporto di lavoro”. In generale, “un quadro di grande instabilità anche per chi non figura ufficialmente senza lavoro”. Le Acli, da parte loro, s’interrogano su “come accompagnare le persone a orientarsi sui contratti di lavoro, sulle tutele, sul creare mutualità e mutua formazione tra persone e famiglie fino ad arrivare alla scelta degli studi, alla conoscenza del lavoro, al tessuto d’imprese, alla previdenza” e chiedono un’azione “più incisiva” per contrastare la disoccupazione giovanile, partendo da un lavoro “culturale” che restituisca, ad esempio, maggiore dignità al lavoro professionale. “Riforme strutturali del mercato del lavoro”, accompagnate da “un maggior raccordo tra scuola e lavoro”: a chiederle è il vicepresidente nazionale di Mcl (Movimento cristiano Lavoratori), Tonino Di Matteo, secondo il quale quello odierno è un dato che “si commenta da sé”, frutto in primo luogo di “un mercato del lavoro troppo ingessato, troppo rigido”, e che invece “deve diventare più dinamico, favorendo l’incontro tra la domanda e l’offerta”. Altrimenti, “si finisce per penalizzare i più deboli”.Crederci sempre. “È il modo di reagire che fa la differenza”. Parola di Lisa Moni Bidin, vicepresidente nazionale del settore giovani di Azione Cattolica. Lisa vede attorno a sé, nel “bacino di utenza” di Ac, giovani “capaci di fare rete, di mettere insieme competenze e dare spazio alla creatività per reinventarsi”. Dalla loro parte, “la forza di essere sostenuti di fronte al disagio”, grazie alla fede e al legame associativo. Non nega la drammaticità dei dati, Lisa, ma non teme neanche di dire che il quadro che ci presenta l’Istat “è sfalsato”, perché quella tra i 15 e i 24 anni “è una fascia di età un po’ particolare: fino ai 25 anni, in genere i giovani non hanno come primo motivo l’andare a lavorare, ma lo studiare”. Ci sono, poi, “moltissimi giovani che lavorano e studiano, facendo lavori molto semplici per sostenere le spese”. Nutritissima, inoltre, è la schiera dei giovani che “investono in formazione per fare ciò per cui si sentono chiamati nel mondo”. Giovani, dunque, che “continuano a credere” nel futuro, anzi nutrono la ferma “volontà” di riuscire a “contribuire a cambiarlo”. “L’accesso in entrata al mercato del lavoro è difficile per tutti”, osserva Lisa, “e quando lo trovi, viene remunerato e contrattualizzato a un valore molto più basso della media europea”. Le donne, poi, sono ancora “costrette a scegliere” tra famiglia e lavoro, visto che le politiche di conciliazione in Italia ancora latitano. “Però le aziende più strutturate, con maggior profitti – osserva la vicepresidente di Ac – cominciano ad accorgersi che i comparti meglio organizzati, dove si registrano i risultati migliori, hanno un tasso più elevato di presenza femminile in ambiti di responsabilità”.
Giovani “in gabbia”, ma con la voglia di volare. Si chiamano Eva Cancelli ed Emmanuele Garau, lei laureata in scienze politiche internazionali e lui architetto, in comune la “militanza” nel Rinnovamento nello Spirito. Si sono sposati giovanissimi – racconta Eva, 25 anni – nonostante nessuno dei due avesse un posto fisso. Poco dopo il matrimonio, per lavoro Emanuele è dovuto “emigrare” a Milano, mentre Eva è dovuta restare a Roma. “Siete una coppia molto moderna”, dicevano gli amici pensando alla vita infrasettimanale quasi “da single” e al frequente ricorso a pc, cellulare e skype per mantenersi in contatto. “In realtà, c’è un nuovo genere di relazioni che bisogna apprendere. Per non parlare di chi si è dovuto spostare all’estero”. Il nostro non è certo un Paese che punta sui giovani, che “si sentono in gabbia perché qui sentono di non avere prospettive”. Eva ci tiene a dire che sì, è vero, “molti giovani vorrebbero poter esprimersi qui in Italia per quello che hanno studiato, o non trovando niente qui fuggono altrove, dove ci sono possibilità lavorative concrete”. Ma è vero anche, aggiunge, che “si parte con la speranza di tornare qui”. Non solo perché in Italia “i legami affettivi sono molto forti”, ma perché “la speranza è quella di risollevare il nostro Paese”.
M.Michela Nicolais per Agenzia Sir
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