Seicento anni fa, il 27 marzo, nasceva san Francesco di Paola. Un’occasione che permette di fare il punto su un personaggio non solo ancora oggi al centro della devozione popolare — basti rilevare quanto la sua figura sia dominante in Calabria, sua terra d’origine, dove è venerato in tante chiese e santuari — ma che incuriosisce lo storico, per tanti aspetti. Non pensiamo solo alla sua attività ascetica e al suo modello di vita che lo proiettano con pienezza nella categoria dei «santi vivi», secondo la felice espressione coniata da Gabriella Zarri, ossia tra quei personaggi dotati di straordinari doni mistici, che suscitarono l’interesse di prìncipi, religiosi, mercanti, ecclesiastici, intellettuali.
No, non ci riferiamo esclusivamente a questo. Incuriosisce Francesco in quanto protagonista del suo tempo, che attraversò, nella sua lunghissima vita, eventi di cui spesso non fu solo testimone ma anche, talvolta suo malgrado, protagonista. Un itinerario per molti versi inaspettato ed epico, che comincia a Paola, nella Calabria profonda, quasi al termine della lunga parabola angioina. Che terra è, allora, la Calabria? Nella recente biografia dedicata al santo e pubblicata da Salerno Editrice, Giuseppe Caridi, sulla scorta dei lavori ormai divenuti classici di Giuseppe Galasso, fornisce diversi elementi descrittivi. È una terra che ancora subisce i lunghi strascichi della crisi trecentesca, affetta da un violento calo demografico che ne ha minato profondamente le già fragili infrastrutture urbane e insediative. Regione per molti versi in recessione, con un’agricoltura in affanno, le aree produttive in calo, il commercio in stallo.
Con una vita politica turbolenta, dove lo scontro per la successione al regno tra angioini e aragonesi scompagina gli equilibri, con l’emergere di grandi famiglie feudali che cercano di ritagliarsi, nel complesso quadro delle alleanze, un maggiore spazio di intervento e decisione, tra cui quella, prestigiosissima, dei Ruffo, signori anche della cittadina di Paola. È in questo contesto che cresce Francesco, figlio di piccoli proprietari terrieri. Genitori semplici e devoti che devono fare i conti, quasi da subito, con una malformazione del bambino, che è cieco da un occhio. Dalla preghiera al miracolo, al voto: se san Francesco d’Assisi gli avesse salvato l’altro occhio, allora il bambino — come era uso al tempo e lo sarà a lungo nelle società meridionali — per un anno avrebbe indossato il saio. Così avviene. Ricevuta la grazia, il bambino viene condotto al convento francescano di San Marco Argentano, vicino a Cosenza. Nel 1430, altro passo decisivo: va in pellegrinaggio, coi genitori, ad Assisi.
Nell’occasione, visita Roma, i romitaggi di Monte Luco, il cenobio benedettino di San Giuliano presso Spoleto e il monastero di Montecassino. Capisce che la vita monastica è la sua strada. Da lì a poco, comincia una vita eremitica. In mezzo a un bosco, in una grotta verso il fiume Isca. Che cosa lo spinge? Certo il modello e l’esempio di san Francesco d’Assisi. Ma bisogna pensare anche ad altro. La società calabrese in cui cresce Francesco appare come slegata dal resto del contesto del Regno e dalla sua capitale, Napoli, che ormai, dal 1443, con la nuova regìa aragonese, vive un’effervescenza culturale di stampo europeo. La Calabria, invece, è un mondo arretrato, dai ritmi tradizionali, animata ancora da gruppi di fraticelli che vagano di villaggio in villaggio sospinti dalla loro sete evangelica. Non a caso è sempre la terra di Gioacchino da Fiore e delle sue suggestioni apocalittiche e di palingenesi. Ansia di giustizia, protezione degli umili e degli indifesi: sono questi gli argomenti di una spiritualità sociale diffusa. Ma questo atteggiamento, ed è l’altro verso della medaglia, si scontra con l’ossequio — direi il timore assoluto — nei confronti dell’autorità politica e religiosa, che va rispettata senza se e senza ma. Un’autorità religiosa che, però, proprio in questo difficile momento di passaggio politico, tra il mondo angioino che fu e quello aragonese che sta spiccando il volo, vive un profondo tormento. C’è caos. In tante diocesi mancano i vescovi. Molti presuli sono inadeguati. Regna il disordine. Occorre fare qualcosa. E Francesco fa.
In breve tempo si diffonde la sua fama. Di taumaturgo. Di uomo di Dio, probo, pratico, attento ai deboli e agli umili, che fa miracoli. Dalla fine degli anni Quaranta altri, contagiati dal suo esempio, gli si avvicinano. Si forma una piccola comunità eremitica. Il nome del santo circola. Anche a corte si parla di lui e del suo proselitismo, fondato sull’esempio e sul lavoro. Non si tratta però solo di giudizi positivi. Questo evangelismo diffuso fa paura, mina le certezze, indebolisce le autorità. L’eremo cresce, di prestigio e nel numero di chi attornia il suo fondatore. Anche Percorsi Biografie Papa Paolo II comincia a interessarsi.
È il 1467 e invia un suo familiare, il chierico savonese Baldassarre de Gutrossis, per capire chi è Francesco. Avere informazioni sulla miraculorum fama dell’eremita. Comincia così il cammino verso il riconoscimento giuridico del gruppo di eremiti, avvenuto per mezzo della costituzione Decet nos, data in San Lucido il 30 novembre 1471 dall’arcivescovo di Cosenza Pirro Caracciolo. L’approvazione episcopale crea un’onda. E nascono uno dopo l’altro i nuovi eremitori calabresi di Paternò Calabro, Spezzano, Corigliano, Crotone e di Milazzo, in Sicilia. Ed è in questo momento che Francesco incontra il potere politico. In una relazione che cresce con l’affermarsi del nuovo ordine dei Minimi e della sua fama di guaritore. Le tensioni diventano forti con re Ferrante d’Aragona, dipinto dagli agiografi del santo come un re spietato: immagine che, per inciso, non riguardò solo la stampa su Francesco ma appartenne in generale alla propaganda feudale in funzione anti-monarchica. Tuttavia è vero che tra i due i contrasti furono decisi. Non piacque a Ferrante, come avverte Caridi, la sua azione pastorale, ricca di temi evangelici e di attenzione per gli ultimi, che fu eseguita senza chiedere, come era prassi, l’autorizzazione all’autorità statale. Cosa che allarmò non poco il re, che partì con un’azione di repressione, addirittura ordinando di arrestare Francesco. Ma, in maniera inaspettata, Ferrante fece dietrofront, determinato, oltre che dalla paura di disordini, dalla considerazione che garantire la protezione a un uomo dotato di tale ascendente avrebbe potuto rivelarsi una carta utile ove se ne fosse presentata l’opportunità.
Può piacere questo aspetto della vita di Francesco, monaco controcorrente, emulo del santo d’Assisi, asceta deciso a conservare la propria autonomia. Cui accade un evento straordinario, che lo scaraventa dal suo eremo calabro direttamente a Parigi. L’anno è il 1480. Il re di Francia, Luigi XI, sta male. È afflitto da continui colpi apoplettici. Viene a sapere che nella remotissima Calabria esiste un sant’uomo capacissimo, che potrebbe guarirlo. Ordina allora di portarlo da lui. Francesco non può far altro. Parte nel 1483, accompagnato da due confratelli. Francesco non guarisce Luigi. Gli porta però un grande conforto spirituale. E nei pochi mesi che gli restano da vivere il re si mostra grato. Lo ascolta. Gli permette l’edificazione nella stessa corte, presso la cappella di San Matteo, del primo eremo in terra francese. E qui avviene una modifica sostanziale in Francesco. Che rivela sottili attitudini diplomatiche. Lo sospingono due obiettivi. La pace e il contrasto della minaccia turca. Cioè la sua azione missionaria si allarga a un contesto che non è più monodimensionale e locale — i poveri e la Calabria — ma diventa universale, con la certezza di poter agire su chi davvero può avere i bandoli della matassa politica europea.
E si tratta di un’azione concreta. Grazie ad essa si attenua la tensione tra Luigi XI e Papa Sisto IV e la convergenza tra i due su alcune questioni, come quelle relative all’interdetto contro Venezia, è da attribuire proprio alla mediazione di Francesco. Con Carlo VIII, l’azione del santo prosegue. Ne sostenne il matrimonio con Anna di Bretagna. Si adoperò perché la Francia restituisse il Rossiglione al re di Aragona Ferdinando II.
E sull’impresa italiana del 1494, Francesco cosa pensa? L’atteggiamento è prudente, ma non contrario alla spedizione francese. D’altra parte, egli era pur sempre figlio della sua terra, dove forte era sia lo spirito filo-angioino sia lo scontento verso la politica aragonese. Poi, non va dimenticato che tra le giustificazioni addotte da Carlo VIII per cominciare l’impresa c’era qualcosa che stava davvero a cuore al santo: il sogno della Crociata contro i turchi e di un Regno di Napoli testa di ponte contro l’Infedele. Morto Carlo VIII, Francesco chiese al nuovo re Luigi XII di poter tornare in Calabria. Non gli fu concesso. Ma intanto si andava consolidando la struttura del suo ordine, attraverso le successive approvazioni degli statuti da parte dei pontefici romani. Un ordine che piace all’ambiente clericale francese desideroso di riforma, per il suo genere di vita fondato sulla rigida penitenza e lo stretto rispetto della povertà. Al convento di Tours, dove Francesco si era ritirato, lo accompagna la sua fama austera di contadino calabrese e taumaturgo. Qui muore il 2 aprile 1507. Un venerdì santo. A novantuno anni. Tanto lontano da casa.
Redazione Papapboys (Fonte Amedeo Feniello – Corriere della Sera)