In ricordo di un eroe della Patria: Giovanni Falcone.

Oggi martedì 23 maggio 2017 sono passati venticinque anni dalla morte del magistrato Giovani Falcone, che ha sacrificato la propria vita per aver indagato sul sistema di Cosa Nostra. Era il 23 maggio 1992 quando Giovanni Falcone insieme allamoglie Francesca Morvillo e ad alcuni agenti della scorta, perse la vita nella “Strage di Capaci”. Bisogna anche notare la grande amicizia che tenne sempre legati Borsellino e Falcone, che avevano sempre avuto un solo sogno: quello di cambiare Palermo. Il loro contributo si è sicuramente fatto sentire ed è proprio grazie a persone come loro che sono stati arrestati capì indiscussi di Cosa Nostra, come Totò Riina e Luciano Liggio.

Il metodo di lavoro di Giovanni Falcone era “dinamico con la convinzione – condivisa con altri colleghi, tra cui Paolo Borsellino, di quanto fosse importante il lavoro in pool, e la scelta del maxiprocesso per condurre in giudizio, condannare e sanzionare globalmente il mondo della mafia, muoveva da questo proposito”. Lo ha detto il presidente Sergio Mattarella aprendo il Plenum straordinario del Csm. “Inizialmente non compresi da qualcuno, i suoi criteri rispondevano pienamente al carattere della funzione del magistrato. Aveva ben presente il valore dell’autonomia e dell’indipendenza della Magistratura. Anche per questo era attentissimo, per la credibilità dello Stato e della Magistratura, alla consistenza degli elementi di prova raccolti. Non a caso, diceva che occorre distinguere un’ipotesi di lavoro da elementi che sorreggano l’esercizio dell’azione penale. Questo scrupolo – ha concluso Mattarella – conferiva alle sue inchieste grande solidità nella verifica dibattimentale”.

Falcone conosceva “l’importanza del lavoro in pool che ha condiviso con Paolo Borsellino” e soprattutto “aveva ben presente il valore dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura”. Lo ha sottolineato il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, aprendo oggi a Roma il Plenum straordinario del Consiglio superiore della magistratura. “Giovanni Falcone – ha aggiunto il capo dello Stato – era inoltre attentissimo alla consistenza del materiale di prova” e “questo scrupolo conferiva grande solidità alle sue inchieste”.

Ricordare nell’Aula del Consiglio superiore della magistratura la strage di Capaci, con l’assassinio di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli uomini della scorta, “assume il significato di ribadire l’importanza fondamentale dell’azione di contrasto delle forze giudiziarie e delle forze dell’ordine” alla mafia. Lo ha sottolineato il presidente Sergio Mattarella aprendo il Plenum straordinario del Csm a Roma. Il ricordo di Giovanni Falcone, i cui 25 anni dalla strage cadono domani, “non deve trasferirsi in una celebrazione rituale” perché, ha aggiunto il presidente, “lo spirito e i criteri del suo impegno” rimangono validi. Falcone diceva, e questo è valido ancora oggi che “la mafia non è invincibile ma è un fenomeno terribilmente serio”.

Le tenebre non sopportano la luce, da che mondo e mondo, ma per quanto possano tentare di ghermirla, non riescono mai ad afferrare la luce, a soffocarla. Raccontare di Falcone, Borsellino e padre Puglisi non è raccontare di morte, ma della luce di Palermo, della Sicilia e dell’Italia.

Era una Palermo di sabbia quella del ’92-93.

Non la sabbia bianca di Mondello sulla quale fuggire dalla noia delle giornate scolastiche. Non la sabbia incrostata sulle macchine e le piante dopo una pioggia di scirocco. No. Era la sabbia nei sacchi a protezione delle camionette militari. Era la prima volta dopo la guerra che l’esercito veniva impiegato per ragioni di ordine pubblico. Dopo Falcone e Borsellino la città era sotto assedio, che neanche Beirut. L’operazione Vespri aveva riempito la città di militari. Solo l’esercito poteva proteggerla dall’assedio di sangue a cui l’avevano sottoposta i Corleonesi. Erano gli anni in cui frequentavo il liceo.

Per andare a scuola passavo tutti i giorni davanti alla casa di Falcone e c’era quell’albero sopravvissuto in modo paradossale, come spesso la vita in Sicilia, in mezzo al cemento. Quell’albero era fiorito di pezzi di carta. Dopo Capaci tutti avevano lasciato il loro messaggio a Giovanni Falcone. Era pieno di disegni di bambini, costretti a disegnare in una città che si fregia di essere tutto porto, ma poi le macchine saltano in aria proprio accanto a quel mare. Una città che a detta di un geografo della corte normanna “fa girare il cervello a chi la guarda”. Inconsapevolmente ne definiva l’essenza, tanto bella e complessa da far girare non solo gli occhi, ma anche il cervello a chi cerca di conoscerla.

Borsellino lo incontravo di domenica nella parrocchia di Santa Luisa, dove qualche giorno fa si è radunata una folla silenziosa per i funerali di Agnese, sua moglie. Lui arrivava un po’ dopo l’inizio della Messa per non destare troppo scompiglio. Con la scorta, in fondo. Anche io arrivavo un po’ dopo, per pigrizia. E così lo vedevo. Vicino c’era una stazione della via crucis che rappresentava il Cireneo, un uomo “costretto” a portare la croce di Cristo. Borsellino gli assomigliava, con i suoi baffoni. Poi un giorno di luglio “il botto” e un fungo atomico tra i palazzi. Via d’Amelio era saltata in aria con lui e la sua scorta. Così il Cireneo non c’era più, era rimasto schiacciato dalla croce. La croce di Palermo che Borsellino definiva diversamente dal geografo arabo: “Non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare”.

Poi c’era quel sacerdote del liceo Vittorio Emanuele II. Accanto alla Cattedrale arabo normanna che sembra una castello di sabbia costruito su un azzurro indicibile da qualsiasi aggettivo. Le cupole corallo di San Giovanni s’incendiavano lì vicino, l’oro dei mosaici della cappella palatina incastonata nel Palazzo dei Normanni ricordava che da quelle parti un giorno c’era stato l’eden e ne era rimasta qualche tessera. Il volto tragicamente sereno del Cristo pantocratore sembrava sapere che per amare quella città bisogna passare dalla croce.

E lo sapeva Padre Puglisi, professore dalla fine degli anni settanta fino alla morte, anche quando nel ’90 era stato chiamato a fare il Cireneo a Brancaccio. Nel ’93 io avrei cominciato il quarto anno. Negli anni passati lo vedevo per i corridoi della scuola, sempre con quel sorriso che aveva anche quando gli hanno sparato. Quel sorriso che fece passare notti insonni al suo assassino, autore di 47 omicidi. Il sorriso del “parrino”, quello vero, quello che dà la vita, non quello che te la toglie, aveva condannato l’assassino a pensare che lui era di più di ciò che faceva e forse per questo finì col pentirsi e confessare tutto. Quel sorriso lo vedevo tutti i giorni. Non era professore della mia sezione, ma capitò di conoscerlo per qualche supplenza o qualche chiacchierata in corridoio.

A differenza di altri insegnanti di religione l’ora di religione non era dibattito su temi di attualità, lui faceva lezione: di religione. Lettura, spiegazione e riflessione sui testi biblici. Non si può uscire dal classico sapendo chi siano Telemaco, Aiace e Antigone e ignorando chi siano Abramo, Davide e Giobbe. E nessuno, anche chi non credeva, si sentiva minacciato. C’era la curiosità della conoscenza. Non c’era “dibattito” ma “dialogo”. Sì perché avevamo imparato che in greco dialogo è il “-logos” che passa attraverso (dia-) le persone che cercano la verità, a differenza del dibattito che servo solo a inasprire le posizioni di partenza. Nel dibattito vince chi ha ragione, nel dialogo vince la verità e le persone si rispettano più di prima. Forse solo così il cervello può smettere pirandellianamente di girare e di ripetere che in questa città “la verità è colei che (la) si crede”.

Padre Puglisi diceva le cose con fermezza e calma, senza effetti speciali, poi lasciava che la parola lavorasse nel petto e nel cervello dei ragazzi. La sua era una pedagogia della libertà: la suscitava, te la metteva in mano, poi eri tu a dover scegliere cosa farne. Non imponeva la conoscenza, ma la lasciava accadere in te, suscitando domande di fronte alla meraviglia ora incantevole ore tragica del mondo. Quell’anno non tornò a scuola. Gli avevano sparato il giorno del suo compleanno, il 15 settembre, giorno della Madonna Addolorata.

Intuii che volevo fare l’insegnante. Padre Puglisi mi fece capire come farlo. Un uomo che per me incarna quelle parole di Calvino “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno è quello che è già qui. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno e farlo durare e dargli spazio”. Padre Pino con il suo sorriso, con la sua testardaggine, con il suo amore a Dio che si manifestava nel modo in cui celebrava i sacramenti, con il suo credere nei ragazzi anche i più difficili, liberava i pezzi di paradiso incastrati nell’inferno e li faceva durare e dava loro spazio, come se ricomponesse un mosaico prezioso distrutto da incuria, dimenticanza, odio.

Per questo spero di riuscire prima o poi a scrivere un libro su quella Palermo di morte e rinascita. Le tenebre non sopportano la luce, da che mondo e mondo, ma per quanto possano tentare di ghermirla, non riescono mai ad afferrare la luce, a soffocarla. Raccontare di Falcone, Borsellino e padre Puglisi non è raccontare di morte, ma della luce di Palermo, della Sicilia e dell’Italia.

di Alessandro D’Avenia >>> http://www.profduepuntozero.it e Ansa on line

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