Samad Bannaq ha 27 anni, è musulmano di origini marocchine ed è stato in carcere. Era detenuto alla Dozza di Bologna quando, nel 2012, il terremoto colpì l’Emilia. Ricorda ancora bene l’esultanza dei compagni di cella, che gridavano «Allah akhbar » , «Dio è grande» perché avevano interpretato la scossa come un segnale di giustizia divina contro gli infedeli.
Samad è stato il protagonista di ‘Dustur’, che in arabo significa ‘Costituzione’, un documentario che ha raccontato un percorso di incontro possibile, avvenuto nel penitenziario bolognese, tra la cultura occidentale e i nuovi arrivati dell’islam che si sono macchiati di reati. Un progetto che ha dimostrato come sia possibile una risposta alta contro il diffondersi del radicalismo. Del resto, che le carceri italiane fossero l’incubatore di fenomeni di estremismo è noto da tempo e lo hanno confermato ieri a Palazzo Chigi i massimi vertici del governo, che hanno indicato proprio nella fase della reclusione uno dei momenti-chiave per la ‘svolta’ fondamentalista di tanti: centinaia in Italia, molti di più in Europa. La cronaca stessa ha raccontato, recentemente, la deriva islamista intrapresa in cella dal protagonista della strage di Berlino, Anis Amri, poi ucciso in Italia. «Dietro le sbarre ho visto ‘conversioni’ fulminanti – racconta oggi Samad –. Persone a lungo perse nell’alcol e nella solitudine, diventate improvvisamente fanatiche. Gente che si faceva crescere barbe lunghissime, che non parlava più con nessuno. Sono i cambiamenti repentini i più pericolosi». La storia di questo ragazzo che ha scontato la sua pena e ora studia giurisprudenza, girando scuole e teatri per narrare la sua esperienza, dice invece che un cambio di prospettiva avviene solo grazie all’incontro con le persone giuste. Ma per comprendere come sia possibile prevenire i rischi di radicalizzazione in carcere, occorre partire dall’inizio della storia.
ALLERTA JIHADISMO: RISCHI IN CARCERE E SUL WEB
Arresto, abbandono e derive Degli inizi della sua vita precedente, Samad ricorda tutto: l’arresto in Francia, al confine con la Germania, per traffico internazionale di droga, l’appellativo con cui lo chiamavano Oltralpe («mi dicevano, monsieur Bannaq… Perché signore, mi chiedevo, con quello che ho fatto?») la resistenza iniziale a qualsiasi tentativo di redenzione. Poi la convivenza, recluso in pochi metri quadrati, con altri quattro detenuti. «In carcere spesso si è abbandonati da tutti e diventa inevitabile aggrapparsi a qualcosa di immateriale e di spirituale. Senza guide religiose vere e riconosciute, si finisce alla deriva. Così io, che ero colpevole, mi sentivo una vittima. Era come vivere dentro una morsa: da un lato c’era la società che non faceva che opprimermi con la giusta privazione della libertà, dall’altro sperimentavo l’isolamento. Così, decidi di aggrapparti a quello che c’è, hai bitratti sogno di un branco che in un modo o nell’altro ti accolga». È il momento più pericoloso nei percorsi di radicalizzazione, quello in cui per superare una grande fragilità personale ci si attacca a qualcosa di altro. Non conta se si di puro delirio pseudoreligioso. «Basta che chiunque si autoproclami come imam, perché chi è più debole decida di seguirlo senza capire più nulla. Ci si affida a chi c’è, magari è il detenuto che ha la condanna più lunga e dice di aver già letto il Corano. Succede il venerdì, quando c’è il sermone. Il problema è che manca una guida vera dell’islam dietro le sbarre. I cattolici hanno un prete, un cappellano. Noi no, eppure siamo obbligati ad ascoltare gente spesso analfabeta, che mischia conoscenze sommarie a considerazioni sull’attualità. Nulla di oggettivo, ovviamente, ma su alcuni faceva presa».
Messaggio agli aspiranti jihadisti Il dualismo tra ‘noi’ che siamo dentro e ‘loro’ che stanno fuori aumenta, prima è impercettibile e poi esplode fragorosamente. Anche Samad ha corso questo rischio, non ha paura ad ammetterlo. «Stavo già disegnando la mia mappa criminale, pensavo ad evadere e a uscire dal carcere. Poi ho trovato chi, per fortuna, mi ha aperto la mente e ha cambiato la mia vita». È l’incontro con Pier Cesare Bori, storico delle religioni oggi scomparso. «Lui ha cambiato la mia prospettiva: non mi faceva la predica, come gli altri. Mi ha fatto conoscere me stesso, mi ha detto: puoi usare i tuoi talenti e puoi raggiungere i tuoi obiettivi. Discutevamo di filosofia, di religione, dell’esistenza di Dio. Senza approssimazioni ». Qui si interrompe tutto e la possibile deriva viene disinnescata. Samad cambia radicalmente la strada, conosce un altro educatore che continua con lui il lavoro fatto in precedenza: è fratel Ignazio De Francesco, un monaco dossettiano. «Il ruolo dell’educatore è stato molto importante per me» dice oggi il giovane. Tre anni e tre mesi dopo, al termine della pena, il ragazzo esce dal carcere diverso da come era entrato. Oggi ripete a tutti che «quello che vedete, quello che dice il Daesh non è l’islam. E i jihadisti buttano via la loro vita e quella dei loro familiari ». Nel percorso di deradicalizzazione è stato cruciale il confronto con la Costituzione italiana, «un modello esemplare da conoscere e da far conoscere, a noi stranieri e anche ai giovani italiani. Ho scoperto che l’integrazione può partire da quei precetti fondamentali. Nelle scuole, innanzitutto ». Nella legge degli uomini e per gli uomini, c’è scritto secondo Samad quel che possiamo fare insieme. «È una cosa meravigliosa, l’esatto contrario di tanti proclami carichi d’odio che ho sentito in cella e che vedo rilanciati nei messaggi letti alle tv. Una ricetta contro il rischio del diffondersi del jihadismo? Prendersi cura delle persone, educare e non solo reprimere. Dobbiamo piantare un albero ed accudirlo. Ci vorrà tempo, sarà faticoso e magari non vedremo subito i risultati. Ma alla fine i frutti saranno migliori di quelli del tempo presente».
Fonte www.avvenire.it
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