La mamma della bimba inglese in stato di minima coscienza ha visitato il Gaslini: «I medici mi hanno rassicurata. E noi faremo di tutto per far vivere nostra figlia»
E’ tesa, arrabbiata, inflessibile, mentre seduta davanti al bel mare estivo di Genova, di fronte all’ospedale pediatrico Gaslini, riceve da Londra una telefonata allarmata dal marito. Approfittando della sua breve assenza, i medici del London Royal Hospital hanno appena cercato di sottoporre la sua piccola Tafida a un nuovo esame, senza l’autorizzazione dei genitori e dei giudici. «Vogliono dimostrare che deve morire. Nessuno tocchi nostra figlia », comanda perentoria al cellulare, «nessuno la visiti in mia assenza». Poi mette giù e, con gli occhi colmi di angoscia, si lascia andare. «Lo vede? Questo è ciò che faccio tutti i giorni da mesi in Inghilterra. Bloccare i medici che vogliono impedire a mia figlia di vivere ».
Ieri in giornata Shelina Raqeeb, 39 anni, avvocato britannico di origini bengalesi, era in visita al Gaslini «per vedere dove verrà mia figlia». Ad accompagnarla è Filippo Martini, vicepresidente dei Giuristi per la Vita, mentre ad accoglierla è il direttore generale del Gaslini, Paolo Petralia, con l’équipe di medici che l’11 agosto al London Royal Hospital hanno visitato la bambina.
Tra pochi giorni l’Alta Corte deciderà se possiamo, a spese nostre, portare nostra figlia in Italia, dove gli specialisti del Gaslini si sono offerti di curarla. Per questo i medici di Londra sono nel panico e oggi hanno provato un colpo di mano. Si stanno comportando male, sono pronti a tutto, ma lo siamo anche noi. Io e mio marito da sei mesi viviamo notte e giorno in ospedale con Tafida. Sappiamo con certezza che lei riconosce la nostra voce, ci segue con lo sguardo, stringe la nostra mano, afferra i giocattoli. Vediamo piccoli miglioramenti. Chiediamo solo di darle il tempo necessario.
Che dal punto di vista scientifico bisogna aspettare, darle tempo, sei mesi sono pochissimi per capire come sta reagendo. E soprattutto per capire cosa si può fare per lei. Sono stupiti del fatto che i medici inglesi abbiano immediatamente optato per la sua morte.
Quando verremo in Italia vorrò incontrare questa ragazza e la sua mamma. Anch’io farò tutto il possibile per Tafida. Lascerò la mia carriera di avvocato per stare con lei e stimolarla. Abbiamo pensato al Gaslini perché il figlio di un nostro amico, colpito da una malattia che in Inghilterra era considerata non trattabile, qui è stato curato e ora sta bene. In Italia a nessun ospedale verrebbe mai in mente di far morire un bambino che non è in morte cerebrale, Qui i medici lavorano con competenza e insieme compassione. Nel Regno Unito giocano a fare gli dèi e nemmeno ammettono il diritto di portare il proprio figlio all’estero. E’ una questione di immagine: da una parte non vogliono passare per medici che non sono in grado di curare, dall’altra temono che l’Inghilterra sia vista ormai come il Paese dell’eutanasia dei piccoli.
Ovviamente è importante, e sia la comunità islamica che i vescovi cristiani in Inghilterra si sono espressi con forza a nostro sostegno. Ma indipendentemente dalla religione, una vita è sempre una vita e va difesa. L’amore di un genitore è incondizionato, se Tafida restasse sempre così comè oggi, la accudiremmo, io combatterò e io vincerò. Mia figlia, oggi presa in ostaggio dallo Stato e tenuta prigioniera senza colpa, verrà rilasciata. I Giuristi per la Vita sperano di farle avere la cittadinanza italiana: se così fosse, la vostra ambasciata potrebbe fungere da giudice tutelare e per Londra sarebbe difficile far morire una bambina non più inglese. Quando Tafida sarà libera, molti altri genitori potranno pretendere di curare i loro figli oggi condannati a morte.
Ricordo il caso famoso dei due genitori arrestati per aver portato di nascosto il bimbo in Portogallo: hanno subìto di tutto ma hanno vinto, il bambino ora sta bene. Un’ultima occhiata al mare di Boccadasse prima di riprendere l’aereo per Londra, e finalmente il primo sorriso: «A Tafida piacerà, la porteremo a nuotare», promette. Qualcuno le ha messo in mano un’immagine di Maria da portare alla sua bimba, e Shelima la ripone con cura in borsetta: «Maria ha sofferto tanto per suo figlio», mormora, «…Maria era una madre».
Di Lucia Bellaspiga per Avvenire.it
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