Come dire… lo sospettavamo da tempo, ma ora lo certifica l’Ocse: chi oggi è giovane, disoccupato o precario, domani sarà con molta probabilità un anziano povero. La difficoltà a trovare un primo contratto, poi la discontinuità dei lavori, infine le nuove regole del sistema pensionistico, ridurranno di molto sia l’accumulo di contributi, sia la loro trasformazione in rendite. Risultato: «Le future coorti di pensionati saranno più vulnerabili al rischio di povertà durante la vecchiaia», per usare la felpata formula dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico.
Quello delle minori tutele previdenziali per le nuove generazioni è un problema comune un po’ a tutto l’Occidente. Con l’Europa che negli ultimi due decenni ha profondamente riformato le architetture delle protezioni sociali, sotto la pressione da un lato del notevole allungamento dell’aspettativa di vita e dall’altro dell’insostenibilità dei costi in proporzione al prodotto lordo. Solo che da noi la situazione è particolarmente complicata da una serie di antinomie: abbiamo sempre meno giovani ma con un tasso di disoccupazione fra i più alti del Continente; il livello dei nostri salari è nettamente inferiore a quello medio dell’Ocse, mentre il peso della tassazione e dei contributi è da record assoluto. E ancora: tra un paio di decenni avremo, assieme ai danesi, l’età pensionabile più alta del mondo: 69-70 anni. Intanto, però, registriamo un’età “effettiva” di pensionamento fra le più basse: 61 anni per gli uomini, 60 per le donne. Perché, nonostante le regole più stringenti via via approvate dal 1992 al 2011, non è mai stata del tutto chiusa la scorciatoia dei prepensionamenti. E infine, la contraddizione più stridente: ancora oggi abbiamo rendite calcolate sulle ultime retribuzioni e rivalutate in maniera più che generosa, mentre per i futuri pensionati si calcoleranno al centesimo solo i contributi effettivamente versati, rivalutati con coefficienti minimali.
Ma come dire… tutte queste cose le sapevamo da tempo. Quel che ancora non sappiamo, invece, è che cosa possiamo fare per evitare un futuro di stenti ai nostri ragazzi, dopo aver già rivisto in maniera drastica il sistema pensionistico e aver provato – senza riuscirci molto, in verità – a riformare pure il mercato del lavoro. Favorire la crescita economica e l’occupazione, ovvio. Rendere più fluido e meglio garantito l’incontro tra domanda e offerta di lavoro per i giovani, certo. Favorire ancora il ricorso alla previdenza integrativa, d’accordo. Ma c’è un nodo, una parola messa nero su bianco dall’Ocse che dobbiamo aver il coraggio di pronunciare e affrontare: miseria. Che cosa possiamo fare per evitare che un’intera generazione si trovi già oggi e sicuramente domani senza mezzi adeguati e che si scateni un conflitto sociale senza precedenti? Una prima risposta è arrivata proprio ieri dal governo, che ha inserito nella legge di Stabilità un modulo iniziale di reddito minimo di inserimento (o meglio di Sia, il sostegno d’inclusione attiva, meccanismo messo a punto dal ministero del Lavoro). Una sperimentazione nelle grandi città – con un impegno di 120 milioni in tre anni – finanziata da un prelievo di solidarietà sulle pensioni oltre i 90mila euro l’anno. Un intervento assai parziale, se si considera che per coprire appena un quinto della popolazione in povertà assoluta sono necessari 900 milioni di euro.
Può rappresentare, però, un avvio importante se non si ridurrà all’ennesimo intervento dispersivo, come quelli già in corso con la vecchia Carta acquisti, la nuova Social card, l’utilizzo di fondi europei al Sud, i progetti dei Comuni… Tante, troppe piccole iniziative, insufficienti per spezzare il circolo vizioso che ancora condanna i giovani ad essere i precari di oggi, i poveri di domani.
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http://www.avvenire.it
Autore: Francesco Riccardi
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