San Giuseppe è molto popolare e ovviamente non poteva che essere così. Lui in fondo, ricordiamoci: non ha avuto proprio un ruolo come tanti, quello di padre putativo di Gesù, e marito di Maria. E la devozione popolare è tanta per questo santo. Anche Papa Francesco, abbiamo visto, quanto sia legato a questa figura così “misteriosa” (in un certo senso, non tanto si conosce di lui), così affascinante.
Non c’è regione, città, paese che non lo celebri con qualche particolare festa, dove devozione e tradizione nazionalpopolare si fondono e si confondono.
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Il culto di San Giuseppe, iniziò in Italia e in tutti i paesi cristiani, fin dal Medioevo, grazie ad alcuni monaci benedettini (1030) , all’ordine dei Servi di Maria (nel 1324) e ai Francescani (dal 1399). Grazie a questi ordini religiosi, la devozione crebbe sempre di più, fino a vedere il santo, patrono di molti paesi e città. Proprio in questi paesi, il 19 marzo, veniva festeggiata – prima della istituzione della festa del santo – la vigilia dell’equinozio di primavera. Grandi feste, dove protagonisti indiscussi erano i falò, propiziatori per la primavera. In fondo, in quelle stesse località dove si festeggiavano i riti pagani, ancora oggi, grandi falò illuminano le notti di festa di San Giuseppe.
Feste antiche che si perdono nella notte dei tempi. I racconti dei nonni ci aiutano a entrare in tradizioni che ormai – purtroppo – non vivono più il sapore di una volta. E “sapore” – è il caso di dirlo – è proprio il termine più appropriato. La cucina italiana e le tradizioni religiose sono andate sempre “a braccetto”. Piccoli pani, portati come segno di devozione in Chiesa al mattino da fornai e casalinghe, venivano benedetti e poi spezzettati e offerti a tutti i fedeli. Ma il pranzo era il clou della festa. A tavola le madri portavano la pasta con sparsa sopra la mollica di pane fritta.
E, a proposito di fritti, è lei la protagonista della festa del 19 marzo. Non manca mai, in nessuna tavola. E’ il regalo preferito di ogni papà. Perché – tutti lo sappiamo – il giorno in questione, non è solo la festa di San Giuseppe, ma dal 1968 è divenuta anche la festa laica di ogni papà. Ma cosa non può mancare sulle tavole delle famiglie, oggi? Signore e signori, è lei: la zeppola di San Giuseppe .
Sull’origine del famoso dolce, troviamo due tradizioni. Una, legata ai riti pagani di cui si diceva prima; l’altra, alla città dei dolci per eccellenza, Napoli. Si narra che durante i culti pagani, venivano fritte grosse quantità di frittelle in olio o strutto bollente, simili proprio alle zeppole che noi conosciamo. Alcuni gastronomi, invece, attribuiscono l’invenzione della zeppola di San Giuseppe al convento di San Gregorio Armeno, a quello delle monache della Croce di Lucca, o a quelle dello Splendore. C’è una importante fonte storica che ci viene in aiuto. E’ una ricetta che risale al 1837, pubblicata dal celebre gastronomo napoletano Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino e autore del libro “Cucina teorico-pratica”:
“Miette ncoppa a lo ffuoco na cazzarola co meza caraffa d’acqua fresca, e nu bicchiere de vino janco, e quando vide ch’accomenz’a fa lle campanelle, e sta p’ascì a bollere nce mine a poco a poco miezo ruotolo, o duje tierze de sciore fino, votanno sempre co lo laniaturo; e quanno la pasta se scosta da tuorno a la cazzarola, allora è fatta e la lieve mettennola ‘ncoppa a lo tavolillo, co na sodonta d’uoglio; quanno è mezza fredda, che la puo’ manià, la mine co lle mmane per farla schianà si per caso nce fosse quacche pallottola de sciore: ne farraje tanta tortanelli come sono li zeppole, e le friarraje, o co l’uoglio, o co la nzogna”.
Fa certamente un certo effetto leggere questa antichissima ricetta, in un napoletano così antico. Antica come la tradizione che accompagna questo giorno così speciale.
Antonio Tarallo
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