La Chiesa del Chiapas ha un simbolo, un nome, un volto: sulla sua tomba, nella splendida Cattedrale di San Cristobal de las Casas, l’antica capitale del Chiapas, il Papa si piega a pregare, pronunciando il suo nome: Samuel Ruiz, vescovo della diocesi di San Cristobal dalla fine del 1959 al 2000. Una delle figure più profetiche della storia latinoamericana.
Lo sguardo del mondo torna sul Chiapas, sud-est del Messico. Ci torna con la visita di Papa Francesco in una fra le regioni indigene più impoverite dell’America Latina. Francesco incontra gli ultimi degli ultimi, come ha annunciato e come è nelle corde di un Papa che mostra coi gesti che la dignità abita nei posti più dimenticati dalla storia e dai media.
Ma la visita di Francesco in Chiapas assume un significato molto più ampio. Diventa una sorta di disgelo, un velo che squarcia una storia di oblio e ostilità,
anche delle gerarchie ecclesiastiche, contro la Chiesa del Chiapas. E la Chiesa del Chiapas ha un simbolo, un nome, un volto: sulla sua tomba, nella splendida Cattedrale di San Cristobal de las Casas, l’antica capitale del Chiapas, proprio Francesco si piega a pregare, pronunciando il suo nome:Samuel Ruiz, vescovo della diocesi di San Cristobal dalla fine del 1959 al 2000.
Chi l’ha conosciuto e ha ascoltato i suoi racconti, l’ha sentito pronunciare senza vergogna il ricordo della sua prima Messa celebrata in Chiapas. Aveva come messaggio principale la denuncia della barbarie del comunismo. Correvano quei tempi. Negli anni la sua denuncia alzò invece la voce contro la miseria e l’oppressione che gli indigeni subivano nei luoghi teatro, nel 1994, dell’insurrezione armata.
La storia è nota: una guerra lampo e poi una lunga guerra a bassa intensità ufficialmente mai conclusa contro le comunità che sostenevano l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale guidato dal subcomandante Marcos. Fu Ruiz, il vescovo degli indios, a volere il tavolo di mediazione che fece firmare all’Ezln e al governo guidato da Ernesto Zedillo gli storici accordi di pace,
gli Accordi di San Andrés. Era il 16 febbraio del 1996, giusto 20 anni fa. Erano accordi parziali, concentrati solo su alcuni punti, ma importanti perché aprivano al riconoscimento dell’autonomia dei popoli indigeni e al rispetto della loro cultura e delle loro tradizioni. Il governo messicano non li ha mai voluti applicare e ad oggi rimangono solo sulla carta.
Don Samuel voleva la pace, ma con la giustizia: non ha mai giustificato l’uso delle armi, a cui era fermamente contrario, ma ha sempre difeso le ragioni degli ultimi. Anche per questo i nemici lo chiamavano il “vescovo rosso”, un’espressione antipatica perché accomuna e riduce a ideologia quella che per la chiesa latinoamericana è stata ed è ancora oggi prima di tutto un’opzione per gli ultimi, per gli impoveriti.
Don Samuel ha portato avanti una pastorale coraggiosa, figlia del Concilio, ma figlia anche degli insegnamenti che gli indigeni delle varie micro-regioni del Chiapas gli avevano impartito. “Ho imparato tante cose”, ha raccontato. “A fare domande anziché distribuire risposte. Capire, prima di spiegare. Piano piano la mia cultura è penetrata nella cultura Maya. I principi della dottrina restano saldi, ma il modo di leggere il Vangelo ha trovato intonazioni diverse. Siamo cresciuti assieme”. Per stare vicino a loro nei suoi tour pastorali tra le montagne chiapaneche rifiutava le accoglienze sontuose e dormiva scomodamente, con letizia, nelle comunità.
Con gli ultimi Don Samuel ha camminato per 40 anni, tanto che il titolo della sua bellissima biografia scritta dal giornalista messicano Carlos Fazio è proprio “El caminante”.
Un cammino che provocò a Don Samuel molta ostilità, anche interna alla chiesa.Venne accusato di “gravi errori pastorali”, con il tentativo a più riprese di sostituirlo e poi di affiancarlo con Monsignor Raul Vera, anche lui conservatore e anche lui convertito poi dagli indigeni. Oggi Raul Vera è il difensore dei deboli e dei migranti del Messico delle barbarie.
Ecco perché la visita di Papa Francesco alla tomba di Don Samuel rappresenta molto di più di un viaggio di speranza e di fede: è il segno di una storia riscritta sul pulito, di un omaggio, tardivo e pieno di umiltà e riconoscenza, ad una delle figure più profetiche della storia latinoamericana.
Redazione Papaboys (Fonte www.famigliacristiana.it/Giulio Sensi)
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