Italiae et Ecclesia

Frati Francescani: il nostro convento fra i container del terremoto

Una carezza a Balù, che dopo tre giorni sotto le macerie dell’Hotel Roma ha ritrovato Betta, la sua padrona, e ora non la molla più. Un sorriso a nonno Mario, 90 anni, che sta rientrando dal pascolo, mentre la moglie Ada, 83 anni, si ferma ancora un po’ con il gregge. Un saluto al volo a Emiliano, che si dirige verso casa con il trattore.

E poi quattro chiacchiere con le “vicine di casa”, Rita ed Erminia, che vivono con la mamma, Amalia, 91 anni.
Se si volesse cercare un’immagine per spiegare cos’è la “nuova evangelizzazione” bisognerebbe venire qui, tra i container di Santa Giusta, a nove chilometri da Amatrice. E fotografare il “convento di plastica”, la casa dei francescani tra le macerie del terremoto. Perché «qui si tocca con mano che le parole tradizionali della fede sono estranee alla vita della gente e dobbiamo reimpararle con loro»: padre Massimo Fusarelli, minore francescano, è qui da una decina di mesi. «Anche in questo ambiente rurale la postsecolarizzazione è palese. Si è azzerato tutto. E le strutture, che altrove possono dare l’illusione di una certa consistenza, non ci sono più: sono venute giù 106 chiese, non se ne è salvata una». Cosa resiste? «Il sacramento dell’amicizia. Ma tutto questo a noi chiede libertà interiore, maturità umana, capacità di relazione e nessuna rigidità».
STARE FRA LA GENTE
Romano («e romanista»), il francescano, 54 anni, viveva in un convento a Frascati e lo scorso settembre doveva iniziare il suo anno sabbatico, dedicato alla preghiera e allo studio. Il 25 agosto, all’indomani della prima scossa devastante del terremoto tra Lazio e Umbria, aveva ascoltate l’appello dei vescovi delle zone colpite dal sisma – «chi vuole venga ad aiutarci» – e si era detto che sarebbe stato bello rispondere. Ma come? Dove? E poi c’erano altri impegni. Un desiderio lasciato cadere lì e… raccolto dalla Provvidenza. Il vescovo di Rieti, monsignor Domenico Pompili, di fronte alla disponibilità dei Frati minori della provincia romana a dare una mano, aveva preso la palla al balzo: «Non ha chiesto aiuti materiali, ma la presenza di due o tre frati. Non per l’immediato bisogno pastorale ma proprio per stare vicini alla gente, come testimonianza di fraternità, poiché il terremoto sfalda i legami, ferisce le relazioni».
Così fra Massimo vede svanire l’anno sabbatico appena iniziato, riesce a fare un corso di esercizi ignaziani e a vivere solo un mese in un monastero, e si trasferisce in questo container nel campo operatori della Caritas italiana. Diventa il coordinatore pastorale tra Scai, Turrita e Santa Giusta. Una trentina di frazioni, dove ancora vivono circa 450 persone. «Questa zona si è spopolata di meno rispetto ad altre, la gente ha le stalle, non ha voluto abbandonare gli animali. E poi è sulla via Salaria ed è più facile l’accesso». Quelli che ancora abitano nelle case di pietra sono una decina di persone, gli altri al massimo usano cucina e lavatrici a piano terra, ma di notte vanno nelle roulotte e nei container.
Oltre a fra Massimo, quattro confratelli che vivono nella periferia romana di Torre Angela si alternano due alla volta. E in questi mesi sono arrivati per brevi periodi anche altri frati dal Lazio, Abruzzo e persino frati minori conventuali del Nord.




IL SISMA RIUNISCE I FRANCESCANI
«Dopo la terza scossa, quella del 18 gennaio, quando c’era la grande nevicata, ho mandato un messaggio al mio superiore: “Come frati possiamo fare qualcosa per questa situazione?”», dice fra Giambattista Scalabrin, per tutti “fra Giambo”, 42 anni, di Padova. «Così dopo 500 anni dalla divisione giuridica tra conventuali e minori, il terremoto ci ha fatto ritornare insieme», conclude scherzando fra Giovanni Palleva, 52 anni, da Noventa Padovana.
Un’esperienza che è il primo seme di una nuova comunità che nascerà prossimamente proprio nella valle di Rieti e manterrà un legame di vicinanza con questa zona, una volta che il “convento di plastica” sarà lasciato, probabilmente entro l’estate. Monsignor Domenico Pompili ha infatti chiesto ai provinciali delle tre famiglie francescane di Roma – Minori, Conventuali e Cappuccini – di realizzare una fraternità interobbedienziale. Un frate di ogni ramo in un’esperienza di “ecumenismo francescano”. «A parte l’abito non ci penso neppure che siamo di rami diversi. La realtà cruda relativizza anche le differenze. Si sta qui, si lavora, si collabora, superando anche le caratteristiche dei singoli», dice fra Giambo. «Quando la sera si chiacchiera vediamo che alla fine siamo uguali. Con pregi e difetti francescani comuni», aggiunge Giovanni.
LA VITA IN CONTAINER
Nel container ci si siede intorno al tavolo, nell’unico ambiente che fa da soggiorno, cucina e cappella. Ogni tanto qualcuno entra e chiede dove depositare materiale elettrico, alimenti, o semplicemente si affaccia per un saluto. Il tavolino all’ingresso regge il leggio e un’icona del Cristo vite con gli apostoli come tralci, di lato una piccola scrivania con stampante e computer e un divano che all’occorrenza diventa letto. E poi i fornelli, i pensili da cucina, il frigorifero, l’appendino per gli strofinacci. Alle pareti le scritte «Giustizia e pace si baceranno» e «Misericordia e verità si incontreranno». Nell’altra stanza due letti a castello. «Siamo in tre di solito, ma qualche volta abbiamo anche dormito in cinque», dice fra Massimo. «Bisogna essere flessibili, è come un campo scuola permanente. Un frate abituato all’ordine del convento qui all’inizio si sente morire, ma alla fine si è grati», aggiunge fra Giovanni. «Riscopri l’essenzialità. Reimpari anche a fare la fila per andare in bagno, e questo ci fa bene perché come frati ci siamo un po’ “imborghesiti”, abbiamo tante comodità nei conventi e nemmeno ce ne rendiamo conto. In questa situazione ho riacquistato lo status del frate, la capacità di ascolto: Santa Giusta mi ha rimesso in gioco anche come persona», commenta fra Giovanni. «Siamo un po’ garantiti, anche nella pastorale con schemi, progetti, orari», aggiunge fra Massimo.
OGNI GIORNO È DA INVENTARE
A Santa Giusta non esiste una “giornata tipo”. A parte la colazione, le lodi alle 7.30 e i vespri alle 19, i pranzi e le cene alle mense, «ogni giorno è da inventare». Il vescovo ha chiesto ai frati di garantire le cose essenziali: la Messa domenicale e quelle feriali dove sono possibili, la catechesi per i bambini – «sono 4 per la cresima, 6 per la comunione, ma è un modo per radunare questi ragazzi» – e la visita alle famiglie, che è stata fatta già quattro volte. «È il nostro servizio più importante: non si deve pensare alla benedizione in fretta e furia, in una giornata visiti due famiglie, ci sono ascolti infiniti».
L’argomento principale è il racconto ripetuto del 24 agosto e del 30 ottobre: «Ma ogni volta lo è in modo diverso: raccontando il terremoto ti dicono come stanno». Dai colloqui vengono fuori anche le problematicità di una vita che il terremoto ha scoperchiato ? la crisi di coppia, il lavoro ? e i perché senza risposta. «La domanda più profonda è in quell’abisso che il terremoto scava dentro. Pochissima gente viene in chiesa, ma non stiamo qui per trascinarceli e comunque dall’inizio le persone aumentano. A Scai, dove celebriamo in un prefabbricato polifunzionale, vedere bambini e famiglie alla Messa domenicale ti dà il senso della comunità e consola molto». Ogni giorno almeno un frate è presente, per l’ascolto, nella tenda emporio Caritas ad Amatrice, dove si distribuiscono gli alimenti. Anche il pranzo e la cena sono momenti di incontro nelle mense allestite per chi è rimasto in zona, necessarie perché non c’è ancora nessun esercizio commerciale aperto.
Una volta al mese la piccola comunità vive un ritiro spirituale e ogni lunedì fa il punto della situazione con il vescovo e gli operatori pastorali delle altre zone terremotate, come i frati cappuccini che sono a Sant’Angelo. «C’è una bella rete di comunione, il vescovo sa tenere i pezzi. “Il 75% delle mie energie è rivolto ad Amatrice e non potrebbe essere altrimenti”, ha detto ai parroci della diocesi», spiega fra Massimo.
Tra le altre cose è stato organizzato un pellegrinaggio a Loreto, con 70 partecipanti, e uno ad Assisi è in programmazione. Per Sant’Antonio i frati hanno fatto il giro delle stalle, una cinquantina, e in quel caso «eravamo pastori con l’odore delle pecore in senso letterale», commenta fra Giambo. «Da cittadino puro ho scoperto che per questa gente la Provvidenza passa attraverso gli animali, la natura, la cura della terra… è una cultura che non conoscevo e che sta sparendo. Bisogna entrare con molta delicatezza, imparare ritmi e orari», dice Massimo.
UNA PREGHIERA NUOVA
Fra l’altro, aggiunge Giovanni, «qui la gente ha modi molto schietti». «Quello che noi frati facciamo in sette-otto mesi per arrivare a una faticosissima correzione fraterna, in tre secondi ti viene detto senza peli sulla lingua. È un’educazione all’umiltà continua», sottolinea Massimo. «Questo rapporto senza filtri con le persone, che hanno lo spessore che viene dall’esperienza, mi ha ridato un po’ di respiro, nei conventi è difficile avere rapporti diretti».
Fra Massimo prova a raccontare come questi mesi abbiano cambiato anche lui: «C’è voluto coraggio a celebrare la veglia pasquale ad Amatrice. Se uno fa ritualismo, come alcuni che anche nella nostra Chiesa hanno nostalgia di pizzi e merletti, non ha problemi; ma se sei qui incarnato, gridare “Cristo è risorto” tra le macerie, in una tenda, senza poter accendere le candele per gli antifumo… È dura! È la vita della gente l’elemento simbolico rituale. Nel lamento c’è anche la preghiera che Dio ascolta. Siamo chiamati a fare da levatrice, senza voler immediatamente battezzare tutto».
ACCOMPAGNARE E ANNUNZIARE
A un giovane confratello che gli chiedeva se avesse annunziato esplicitamente Gesù, fra Massimo ha risposto: «San Francesco dice: “Quando vedranno che piace al Signore annuncino”, e io avverto che non è il momento. La cosa che va fatta è stare, accompagnare, annunciare con la nostra vita. La gente non aveva ricordo di una presenza francescana stabile, comunitaria. E oggi ci chiedono perché siamo qui. La fraternità è l’annuncio».
Quest’esperienza inaspettata, aggiunge il religioso, «è stata il miglior anno sabbatico. Non riesco a leggere ma ogni persona è un libro e ne sto leggendo tanti: le persone del terremoto, ma anche i Vigili del fuoco, la Protezione civile, gli operatori Caritas… è una ricchezza di umanità che porterò con me. Avrò bisogno di tanto tempo per rielaborare quello che sto vivendo». Anche la preghiera è cambiata tra le macerie. «Faccio più fatica, è piena dei volti, delle voci, del senso dell’assenza di Dio, che non faccio nessuno sforzo per tamponare religiosamente. È come un atteggiamento di attesa: il Signore si farà vedere, darà un segno… e forse ce lo sta dando nella tenacia di questa gente, nella nostra capacità di stare insieme, nei piccoli gesti. Celebrare la Messa, predicare, cambia molto stando qui. La fatica, la rabbia e il vuoto che ascolto negli altri tocca il mio vuoto e la mia rabbia. Devo stare molto a contatto con me stesso, anche per gestire le relazioni. È una disciplina continua. Non puoi stare qui da funzionario o da anima bella che aiuta senza essere toccato. Non si va via come si è arrivati, questa esperienza ti cambia».
Testo di Vittoria Prisciandaro · Foto di Stefano Dal Pozzolo/Contrasto




Fonte www.credere.it

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