Era un piccolo villaggio senza pretese. Gli antenati nostri, venuti da chissà dove, lo avevano tirato su alla buona, in mezzo alla boscaglia. Il suo nome dice infatti siepi, selve, boschi. Da sempre soffriva un complesso di inferiorità, perché, a un tiro di schioppo, sorgeva un altro paese, anch’esso in mezzo al verde, che – chissà perché – aveva la pretesa di essere maggiore. E così la sorte aveva riservato al nostro il titolo di minore. La gente, però, non è che ci badasse tanto. Aveva da fare altro. Aveva da guadagnare il pane. Occorreva seminare e innaffiare; macinare, impastare e cuocere. Con fatica. I nostri nonni desideravano solo lavorare un pò di meno ed aggiungere al pezzo di pane nero, un sorso di vino e una salsiccia grassa di maiale. Medici e insegnanti, preti ed avvocati venivano da altrove. “Forestieri”, erano chiamati. E la sapevano lunga… e parlavano difficile… e la gente non capiva… ed era timorosa… e rispondeva solo dopo aver alzato il dito… dopo aver chiesto scusa… e si vergognava di non saper parlare… e pagava.
Sempre ha pagato. Tutto ha pagato. Con i soldi e con la vita ha pagato la nostra gente. Un fazzoletto stropicciato. Legato con tre nodi. Riposto nell’armadio, sotto le coperte. O nascosto dalle mamme in seno. Un fazzoletto stropicciato. Unico e prezioso scrigno. Pagava. Sempre ha pagato, la nostra gente. Il medico e il padrone. Il prete ed il notaio. Venivano da fuori. Sapevano parlare… “Al pozzo proprio va attinta l’acqua per fare il pane. Forse sarà poco il pane e ancor di meno il vino, ma basterà a saziarci e lo daremo ai figli guardandoli negli occhi, sentendoci orgogliosi”. Gli anni passavano ed anche da queste parti si cominciò ad andare a scuola. I figli dei vecchi contadini insieme alla zappa impugnarono la penna. Ebbero i primi libri che profumavano di inchiostro. Nelle nostre case. I libri con la zappa. A scuola la maestra ci sgridava perché il libro era macchiato. Di fango e di fagioli. Non capiva che i compiti li facevi a cena. Mentre papà mangiava. E si arrabbiava. E bestemmiava. Perché era finito il vino. E tu lasciavi il libro e andavi a comprare il vino. E tornavi a fare i compiti. Dopo aver portato il vino. Con le mani sporche. E fredde.
La maestra non capiva. Veniva da lontano. Noi andammo a scuola. E arrivarono i voti belli. E la maestra ci diceva bravo. Ci impegnammo. Testardi. Rubando qualcosa a chi sapeva. “ Al pozzo proprio va attinta l’acqua per fare il pane…”. E cominciammo a calare il secchio al pozzo nostro. Il pozzo della nostra vita. E ci accorgemmo che l’acqua c’era. Tanta. Da annegare. I medici oggi sono nostri vecchi amici. Anche il prete è stato con noi a scuola. Insieme all’avvocato e all’assessore. Il ragazzo che tirava bene al calcio divenne Primo Cittadino. Tutta roba genuina. Roba fatta in casa. Roba di casa nostra. Patrimonio da non perdere. Ricchezza da apprezzare. Conservare. Valorizzare. L’albero da cui discendi affonda le radici in questo umile, modesto luogo. Ama l’albero. Ma anche le radici. Non nascondere il nomignolo con cui era chiamato il nonno. Dice la provenienza, il mestiere o un difetto fisico di un antenato antico. Non ne provar vergogna. Sii degno del paese che nacque strappando la terra al bosco. È tuo. È nostro. Ascoltalo commosso. Racconta la tua storia. La storia della nostra gente. Gronda sudore e sangue. Di chi ti ha messo al mondo. Di chi ti ha fatto uomo. Di chi non sapeva scrivere. Ma che aggiunse al settimo, anche l’ottavo figlio. E non ti rinnegò. E non ti gettò via. E ti fece un dono immenso. Il dono della vita.
Frattaminore è il nome del paese di cui parlo. Paese che rimpiangi appena stai lontano. Ombelico da cui misuri le distanze. Frattaminore è il paese che custodisce la tua casa. E i tuoi fratelli. E i compagni dei tuoi infantili giochi. E i sogni e i ricordi belli. Dove una campana antica canta felice un giorno e il giorno dopo geme. Dove i nostri morti dormono il sonno della pace. Frattaminore: lembo di terra a noi più caro di una miniera d’oro. Padre Maurizio Patriciello