La psichiatria non si interessa solo di malattie ma di stati d’animo, di sentimenti, di emozioni, di passioni, di moti dell’anima, che sono esperienze umane diverse da quelle che hanno a che fare con la conoscenza razionale. Non si finisce mai di confrontarsi con l’arcipelago delle emozioni, delle passioni dell’anima, che nel colloquio senza fine con la ragione ci accompagnano lungo il cammino della nostra vita; cambiando, almeno in parte, e alternandosi, di età in età, di situazione in situazione.
Ci sono emozioni forti, come sono quelle dell’amore e dell’odio, della gelosia e dell’angoscia, ed emozioni deboli come sono quelle della gentilezza e della tenerezza, della timidezza e della delicatezza. Ci sono emozioni che ci aprono alla relazione con gli altri, e ci sono emozioni che ci chiudono nei confini della nostra soggettività. Le emozioni dicono quello che avviene in noi, nella nostra interiorità, nella nostra anima, e nascono immediatamente in noi: alcune le conosciamo, e altre ci sono oscure, ma dovremmo impegnarci, e sentirci chiamati, a conoscerle sempre meglio; anche se non è facile. Lo dice sant’Agostino nelle Confessioni: «Quale abisso l’uomo medesimo, di cui pure tu, Signore, conosci persino il numero dei capelli, senza che nessuno manchi al tuo conto. Eppure è più facile contare i capelli che i sentimenti e i moti del cuore».
La gentilezza è una esperienza umana che rende la vita degna di essere vissuta; e una vita alla quale essa sia estranea diviene gelida e desertica. La gentilezza è un modo di conoscere le persone, e un modo di prendersi cura di chi, stando male, ha bisogno almeno di una parola e di un gesto che rendano meno dolorosa la solitudine dell’anima. La gentilezza, ancora, ci consente di evitare le parole che feriscano, e ci fa intravedere le ombre della fragilità e del dolore, della tristezza e dell’angoscia, della nostalgia e della disperazione, che gridano, e chiedono aiuto, nel silenzio. Non saremmo mai capaci di ascoltare queste grida se nel nostro cuore non abitasse la gentilezza: questa esperienza di vita così impalpabile e così segreta, così luminosa e così simile alle stelle del mattino: visibili solo agli occhi che a lungo sappiano guardare il cielo.
La gentilezza è un ponte
La gentilezza ci consente di allentare le continue difficoltà della vita, le nostre e quelle degli altri, di essere aperti agli stati d’animo e alle sensibilità degli altri, di interpretare le richieste di aiuto che giungano non solo dalle parole ma dagli sguardi e dai volti delle persone. La gentilezza è un fare e rifare leggera la vita, ferita continuamente dalla indifferenza e dalla noncuranza, dall’egoismo e dalla idolatria del successo; e alla gentilezza si accompagnano le emozioni sorelle della timidezza e della tenerezza, della mitezza e della speranza. La gentilezza è come un ponte che mette in relazione, in misteriosa e talora mistica relazione, queste diverse emozioni, queste diverse forme di vita. Ma la gentilezza è un ponte anche perché ci fa uscire dai confini del nostro io, della nostra soggettività, e ci fa partecipare della interiorità, della soggettività, degli altri; creando invisibili alleanze, invisibili comunità di destino, che smorzano la morsa della solitudine e della disperazione.
Non c’è cura, cura dell’anima e cura del corpo, se non sia accompagnata dalla gentilezza. Quanti malintesi, e quante incomprensioni, quanti conflitti, e quante dissonanze si eviterebbero se in vita, nelle comuni relazioni interpersonali, non ci si dimenticasse di essere gentili. La gentilezza non costa nulla, e quanto sarebbe utile se fosse presente nelle famiglie e nella scuola, nel lavoro e nella vita. Quanti incidenti stradali si eviterebbero se si fosse gentili nel guidare, e nel confrontarsi con i modi di guidare degli altri. Quante relazioni umane non si sfalderebbero con il passare del tempo se la gentilezza vivesse nel cuore delle persone; e questo perché la gentilezza è accoglienza e comprensione, delle debolezze e delle fragilità, delle angosce e delle attese, che sono nella vita.
Educarsi ad essere gentili
Ci sono persone che, senza nemmeno saperlo, sanno essere gentili nelle più diverse situazioni e con le più diverse persone, trovando immediatamente le parole che fanno del bene, ed evitandoquelle che fanno del male; intuendo e interpretando le attese delle persone che incontrano, e cercando di corrispondere a queste attese; non dimostrando mai impazienza e indifferenza, noncuranza e disattenzione. Sono persone, donne molto più frequentemente che non uomini, dalle quali la gentilezza sgorga come acqua da una fonte in alta montagna, e non contano in questo la condizione professionale o la lettura di libri. Sono persone, come quelle che ho conosciuto in ospedale psichiatrico, ferite dalla malattia e dalla sofferenza, dalla solitudine e dall’abbandono e nondimeno capaci di straordinaria sensibilità umana e di luminosa gentilezza d’animo. Questo non significa che, se non abbiamo inclinazioni innate alla gentilezza e alla tenerezza, alla mitezza e alla generosità, queste inclinazioni non possano rinascere in ciascuno di noi, cosa del resto sempre possibile se cerchiamo faticosamente e ostinatamente di farle sgorgare dalla nostra vita interiore e se ci sentiamo chiamati a questo impegno. In ogni caso, se ascoltiamo la voce del cuore, ci è possibile riconoscere, e abbiamo il dovere di rispettare, le stimmate della gentilezza nel modo di sorridere e di salutare di una persona, di fare domande e di rispondere a domande, di guardare e di fare attenzione a quello che avviene intorno a noi.
La gentilezza, direi, è sorgente di conoscenza e di conoscenze, di attese e di speranze, solo visibili agli occhi bagnati di lacrime; e come non ricordare le mirabili parole di Etty Hillesum, questa giovane ebrea olandese morta non ancora trentenne ad Auschwitz: «Esisterà pur sempre un pezzetto di cielo da poter guardare, e abbastanza spazio dentro di me per congiungere le mani in una preghiera».
La gentilezza aiuta a vivere
La gentilezza è necessaria, oggi ancora più che nel passato, a farci incontrare gli uni con gli altri nel reciproco rispetto e nella reciproca disponibilità a dare un aiuto; ma è necessaria anche nel farci comprendere l’obbligo morale di solidarietà verso le persone lacerate dalla solitudine e dalla indigenza. Nella odierna situazione storica, contrassegnata dalla corsa ad accumulare risorse economiche e dalla indifferenza ai valori del sacrificio e della umana solidarietà, la gentilezza, alleata alla mitezza e alla tenerezza, è sempre più necessaria e sempre più portatrice di cura, vorrei dire. Nella gentilezza, infatti, non si ha a che fare con una forma vuota di esperienza ma con uno stile di vita che consente a donne e a uomini di poter passare gli uni accanto agli altri senza farsi del male, di poter abitare insieme senza reciprocamente ferire la propria dignità, e di poter creare giuste regole di condotta alle quali adeguarsi con fiducia. La gentilezza ancora rende la vita degna di essere vissuta e ogni attacco rivolto alla gentilezza è un attacco rivolto alle nostre speranze.
Certo, la tenace resistenza che abbiamo nel seguire il cammino frastagliato e scintillante che porta ad essere gentili, è la resistenza a confrontarci con quello che avviene dentro di noi e negli altri. La gentilezza è necessaria ma è faticosa da realizzare: ci fa perdere tempo, ci mette in continua relazione con le attese e con le speranze, con le tristezze e con le ansie, che vivono nelle persone con cui ci incontriamo in vita; ma è una sfida, questa, alla quale siamo tutti chiamati.
Friedrich Hoelderlin, uno dei più grandi poeti tedeschi di tutti i tempi, che ha sperimentato nella sua vita la presenza contemporaea del genio poetico e della follia, ha scritto queste parole enigmatiche e vertiginose: «Finché la gentilezza, pura, si conserva nel suo cuore, l’uomo non si misura infelicemente con la divinità. È sconosciuto Dio? È manifesto come il cielo? questo credo, piuttosto. Dell’uomo è la misura. Colmo di meriti, ma poeticamente, l’uomo dimora su questa terra. Ma l’ombra della notte con le stelle non è più pura, se così posso dire, dell’uomo, che immagine della divinità è chiamato».
Conserviamo pura nel nostro cuore la fragile immagine della gentilezza che ci aiuta a vivere: questo è il messaggio insondabile dell’infelice poeta che ha saputo nondimeno giungere ad inenarrabili intuizioni sulla essenza della condizione umana.
La dimensione sociale della gentilezza
Grande è il pericolo che l’uomo moderno smarrisca il senso della dignità della sofferenza («La sofferenza non è al di sotto della dignità umana. Cioè: si può soffrire in modo degno, o indegno dell’uomo»: è ancora la parola di Etty Hillesum), e il senso della solidarietà e della comunione con chi soffre; e da questo pericolo ci difende la gentilezza: così semplice e così fragile, così dimenticata e così sconosciuta, e nondimeno così indispensabile nel creare relazioni umane dotate di senso.
Nel Deuteronomio (24,17-18) si dicono cose che mi sembrano testimoniare della umbratile presenza della gentilezza: «Non lederai il diritto dello straniero o dell’orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova, ma ti ricorderai che sei stato schiavo in Egitto e che di là ti ha liberato il Signore tuo Dio; perciò ti comando di fare questo».
Sono parole, anche queste, che non dovremmo mai dimenticare; serbandole intatte e luminose nel silenzio e nel segreto del nostro cuore, ricordandoci che, ogni volta che siamo gentili con una persona, soprattutto se fragile e malata, se è a noi straniera, realizziamo fino in fondo la nostra vocazione umana e cristiana. Sono parole che allargano gli orizzonti di senso della gentilezza che è colta nei suoi aspetti non solo trascendenti ma umani e sociali. La gentilezza non si può, così, non rivolgere a chi giunga da terre lontane, sconosciuto e inconsapevole dei nostri modi di vivere, e anche a chi mendicante stende la mano in attesa di qualcosa di cui vivere, ma anche di qualcosa che porti una scintilla, o una goccia, di speranza: di quella speranza contro ogni speranza, che è anche nel cuore degli ultimi della terra.
La gentilezza nella sua inconsistenza mondana, e nella sua trascendenza oltremondana, ci distoglie dalle quotidiane banali occupazioni e dalla terrestrità delle nostre distratte forme di vita; e ci fa presagire qualcosa che può rendere la nostra vita degna di essere vissuta. Ma la gentilezza ha a che fare, nel suo ultimo destino, con la dignità della persona; nel senso che, se la gentilezza vive in noi, la dignità umana non ne sarà mai ferita.
Una poesia
Vorrei concludere questo mio discorso sulla gentilezza, sulle sue molteplici forme di espressione citando una bellissima poesia di Eugenio Montale che mi sembra racchiudere in altro modo la cifra tematica della gentilezza.
Tentava la vostra mano la tastiera,
i vostri occhi leggevano sul foglio
gl’impossibili segni; e franto era
ogni accordo come una voce di cordoglio.
Compresi che tutto, intorno, s’inteneriva
in vedervi inceppata inerme ignara
del linguaggio più vostro: ne bruiva
oltre i vetri socchiusi la marina chiara.
Passò nel riquadro azzurro una fugace danza
di farfalle; una fronda si scrollò nel sole.
Nessuna cosa prossima trovava le sue parole,
ed era mia, era nostra, la vostra dolce ignoranza.
La gentilezza fluisce lungo questi versi come sabbia fra le dita e dilaga nel cuore e nella memoria; lasciando dietro di sé scie luminose e indimenticabili.
L’oggetto della psichiatria non può non essere la interiorità, la soggettività dei pazienti, e nella sua conoscenza sia la poesia sia la filosofia offrono punti di vista che ne rendono più sensibile e più profondo lo sguardo; e, già nel suo nascere agli inizi dell’Ottocento, poesia e filosofia sono state alleate di ogni psichiatria aperta all’umano.
Commiato
A questa poesia di Eugenio Montale vorrei consegnare l’ultima parola su questo tema della gentilezza che ho cercato di illustrare nella speranza di averne indicata la umbratile e trepidante significazione nel tracciare un cammino di vita.
Non potrei nondimeno concludere questo mio discorso senza chiedermi ancora se si possa vivere senza gentilezza, senza tenerezza e senza mitezza, senza delicatezza e senza generosità: esperienze di vita che si intrecciano le une alle altre con le loro diverse sfumature semantiche ma nella loro comune fondazione umana. Ci sono filosofi che sostengono proprio questo: sì, si può vivere, e si vive anche meglio, senza emozioni. Non si perde tempo, non ci si tortura con analisi interiori, non ci si smarrisce nella ricerca dei modi di essere e di sentire degli altri, non si è preda di sensi di colpa; e la ragione, la coscienza razionale della vita, si dispiega libera da condizionamenti emozionali; sottraendoci ad ogni inquietudine e ad ogni risonanza interiore.
Le cose che ho cercato di dire sugli orizzonti di senso della gentilezza, e delle disposizioni d’animo ad esse vicine, sono la risposta ad ogni tesi che disconosca la radicale significazione umana e fenomenologica di queste emozioni, di queste passioni dell’anima, così necessarie nel realizzare una vita aperta alla alterità, alla comprensione dell’altro e degna di essere vissuta nella solidarietà e nella speranza.
I sentieri che portano alla conoscenza di quello che noi siamo, e di quello che sono gli altri, non hanno confini e non si possono intravedere nella loro bellezza e nella loro complessità se non sulla scia di categorie emozionali, di stati d’animo, di forme di vita, come sono la gentilezza e la tenerezza, la mitezza e la timidezza, la intelligenza del cuore e la intuizione, che ci portano al cuore della vita, delle cose che le diano un senso.
Se queste emozioni non vivono ardenti e fosforescenti in noi, il rispetto e la salvaguardia della dignità umana sono sempre in pericolo.
Riflessione di Eugenio Borgna – Link: www.notedipastoralegiovanile.it
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