«Ancor oggi l’oratorio ha una funzione straordinaria.Ti insegna a riflettere sulla tua vita, a scoprire che resti frammentato e non diventi persona, se non trovi l’elemento che unifica l’esistenza: la persona di Gesù, incontrata nella forza del ‘noi’». Lo ha detto il cardinale Angelo Scola ieri sera alla presentazione della campagna «Cresciuto in oratorio» lanciata da Oratori diocesi lombarde (Odielle), che ha fra i testimonial l’attore Giacomo Poretti.
L’obiettivo: promuovere e comunicare il valore pastorale, educativo, culturale e sociale dei 2.300 oratori lombardi. Come? Offrendo a tutti – tramite Facebook e il sito www.cresciutoinoratorio.it – la possibilità di raccontare con parole, immagini, video, come e perché l’oratorio ha segnato il proprio percorso di vita. Altri testimonial? Il calciatore campione del mondo Beppe Bergomi e il cantautore Davide Van de Sfroos, invitati a condividere la loro esperienza di oratorio. Ma la stessa cosa è chiesta a tutti. Gli appassionati di cinema, ad esempio, entro il 16 aprile potranno mandare un video per raccontare perché l’oratorio è un posto speciale. I migliori saranno selezionati da Poretti e montati in un «racconto di racconti » che sarà presentato aVenezia durante la Mostra del cinema. Sempre entro il 16 aprile, chi fa musica potrà mandare un demo del proprio gruppo.Van de Sfroos sceglierà le band migliori, che apriranno il suo concerto a San Siro. La campagna è stata presentata all’oratorio Sant’Andrea di Milano: con Scola e i testimonial, introdotti da Ilaria D’Amico, il vescovo di Vigevano Maurizio Gervasoni e il responsabile Odielle don Samuele Marelli. (Lorenzo Rosoli)
La prima volta che ho varcato la porta di un Oratorio avevo 6 anni, era quello del mio paese dove sono nato e cresciuto (poco). Il mio Oratorio si chiamava S. Giovanni Bosco e S. Chiara. Fino alla quarta elementare sono stato convinto che S. Chiara fosse la moglie del signor S. Giovanni Bosco. Che meraviglia l’Oratorio! C’era di tutto: il calcio balilla, il ping pong, e quando ti veniva sete c’era anche un bar. Solo che l’unica bevanda disponibile era la gazzosa, c’era qualche bambino che ne beveva tre o quattro ogni pomeriggio e verso le 17 si sfidavano con una gara di rutti. Oltre alla sala del bar c’erano altre innumerevoli stanze, ma la cosa straordinaria era il campo da calcio in erba da 11 giocatori! L’unico problema è che li sopra ci giocavamo in 280, ossia tutti i bambini dai 6 ai 13 anni del paese. Le porte erano fatte con i maglioni o i cappotti ammonticchiati; quando alla sera si andava a casa spesso si ritornava con gli indumenti di un altro. L’arbitro di quelle decine di partite che si svolgevano contemporaneamente sul campo, il don, alle ore 17 fischiava la fine delle competizioni e ci trascinava tutti e 280 nella cappella. Lì abbiamo imparato i Dieci comandamenti, i sette vizi capitali, le 4 virtù teologali, tutti tranne Martignoni che faceva confusione tra speranza e temperanza, la quale invece apparteneva alle virtù cardinali, assieme alla giustizia, la prudenza e la fortezza; per non parlare dei 10 comandamenti che ne sapeva solo 3.
Allora l’arbitro, che poi era anche il barista, che poi alla fine era anche il prete, don Giancarlo, si innervosiva e diceva che Martignoni, nonostante fosse un somaro, forse anche lui sarebbe andato in Paradiso: perché in Paradiso, diceva don Giancarlo non ci vanno solo i Santi, ci vanno anche i somari, l’importante che avessero il cuore buono. Verso la quarta elementare tutti noi ragazzi del paese abbiamo capito che S. Giovanni Bosco non era il marito di S. Chiara, e che quella S messa davanti al nome e cognome stava per Santi. Verso la terza media abbiamo intuito che l’Oratorio non era di proprietà di San Giovanni Bosco e di Santa Chiara, ma era semplicemente dedicato a loro. Tutti lo abbiamo capito tranne Martignoni che, in quanto somaro, è quasi sicuro che reincontrerà don Bosco in Paradiso. Quando i bambini della mia generazione andavano all’Oratorio, la loro giornata tipo era pressapoco organizzata così: ore 8.20 inizio delle lezioni a scuola, ore 13.20 fine delle lezioni, ore 13.30 tutti i 280 ragazzi del paese erano con le gambe sotto il tavolo di una delle nonne, la quale aveva preparato la pastasciutta al sugo (la pasta al pesto nelle località dell’alto milanese negli anni 60 doveva ancora essere inventata), ore 13.50 tutti i bambini avevano già finito di mangiare ed erano davanti alla porta dell’oratorio.
Tutti tranne Gervasoni che stava facendo il tris di pastasciutta. Ore 14 don Giancarlo apriva la porta dell’oratorio, tutti scemavano dentro urlando a più non posso. Il don, era abituato, li contava ad uno ad uno anche se correvano come Candreva e Perisic (non ce n’erano di juventini nel nostro oratorio, il don diceva che andavano tutti all’inferno). Alla fine ne mancavano sempre 2: Gervasoni e Martignoni, arrivavano verso le 14 e 20, Gervasoni sempre più grasso e Martignoni che ripassava ad alta voce le virtù teologali. Con un calcio nel sedere il don li spingeva dentro poi chiudeva la porta con un catenaccio. Tutti i bambini stavano li dentro al sicuro fino alle ore 18, nessun pericolo si sarebbe abbattuto su di loro tranne i calci del don. Il don del mio oratorio aveva quasi sempre la faccia imbronciata e tutti i bambini pensavano che il buon Dio non gli avesse distribuito il sorriso. Ma quando, 2 volte l’anno, don Giancarlo apriva la porta del teatrino, il suo viso si illuminava, diventava affabile e smetteva perfino di dare calci e insultare Martignoni.
Don Giancarlo amava più Pirandello e Goldoni di San Pietro e Paolo, ed il suo sogno era creare una compagnia teatrale amatoriale: ci riuscì ed io debbo la fortuna di aver scoperto il gioco meraviglioso del teatro grazie a lui. Ero uno dei 3 bambini che dovevano recitare nella commedia che si sarebbe rappresentata per la fine dell’anno scolastico, servivano un bimbo piccolissimo, uno grasso e uno smemorato. Divenne anche un trio famoso in paese: Poretti Gervasoni Martignoni. Mi ricordo che nelle prove ridevamo a crepapelle senza riuscire a fermarci, proprio come quando succedeva in Chiesa durante la Messa; allora don Giancarlo doveva darci qualche scapellotto per farci smettere, proprio come faceva in Chiesa. Dopo una settimana passata a ridere e a prendere scapellotti, il don ci portava in teatro e ci faceva salire sul palco dove recitavamo a memoria quello che avevamo letto. A recitare assieme a noi c’erano anche diversi adulti, uomini e donne, che ridevano a crepapelle e il don doveva guardarli negli occhi per farli smettere. Dopo 2 giorni di prove, alla domenica sera si faceva lo spettacolo a cui assisteva tutto il paese con sindaco e parroco seduti in prima fila. Come attore nella compagnia filodrammatica dell’oratorio ho preso parte a tre spettacoli: in uno facevo un extraterrestre, poi un indiano Cheyenne e infine un cavernicolo.
Quando c’erano gli oratori i genitori non avevano bisogno di assumere le tate e di iscrivere i figli ai corsi di judo, karate, nuoto, inglese, tennis, rugby ed equitazione. Il don era la tata di tutti i ragazzi del paese. Tutti lo temevano, ma si sentivano al sicuro quando c’era lui, anche quando si andava in pullman a fare la gita sulla Grigna: lui correva avanti e indietro lungo il serpentone dei ragazzi per assicurarsi che ci fossero tutti, che nessuno dicesse parolacce; ogni tanto menava qualche scapellotto, ma così, bonariamente, come fanno i cani dei greggi che abbaiano non per spaventare, ma per far sentire alle pecore che c’è qualcuno che le protegge. Una volta, quando ebbe spedito a casa tutti i ragazzi tra i 6 e 15 anni, che avevano urlato, cantato e, alcuni, vomitato sui 3 pullman della gita al Sacro Monte di Varese; quando tutto era ridiventato silenzioso, l’autista vide che il don si era addormentato sull’ultima fila del pullman. Dormirono tutti e due fino alle 6 del mattino seguente poi l’autista accese il pullman, passarono al Circolone a bere un caffè corretto e il don corse in Chiesa perché c’era da celebrare la Messa prima.
Fonte www.avvenire.it/Giacomo Poretti
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