«Sono qui come rappresentante dei non nati. Sono qui a nome dei più deboli, di quelli che non ce l’hanno fatta, uccisi dalle loro madri e da istituzioni che indottrinano più che educare. Sono qui a celebrare la vita e a ringraziare Dio di essere viva.
E sono qui a chiedere a voi da che parte volete stare: da quella del male o da quella del bene? Proprio voi, voi italiani che a volte sembrate quasi non sentire l’amore di Dio o avere paura di lui, da che parte volete stare?». A chiederlo è Gianna Jessen, 40 anni, evangelica americana che ha partecipato alla recente marcia per la vita organizzata a Roma da Pro Vita e che da 26 anni, da quando ne aveva 14, va in giro per il mondo a portare la sua testimonianza contro l’aborto.
La sua vita è una provocazione. È sopravvissuta a un aborto “salino” che sua madre ha praticato a sette mesi e mezzo di gravidanza, e oggi continua a ripetere di essere grata a Dio che l’ha salvata.
«Non riesco a smettere di parlare, anche se a volte non vogliono sentirmi e se, spesso, parlare di Gesù Cristo crea disagio e imbarazzo nell’interlocutore». Fragile nel fisico, ma fiera nello sguardo e nel tono della voce, che è comunicativo e deciso, Gianna Jessen tiene a essere sempre femminile e non rinuncia a un filo di rossetto rosso. Per camminare ha bisogno di avere qualcuno nelle vicinanze per appoggiarsi ogni tanto, perché non riesce a stare bene in piedi a causa dei danni cerebrali e muscolari subiti durante l’aborto. Ma, nonostante questo, ha completato due maratone, tra cui quella di Londra. E non ci sta a farsi dire che qualcosa è impossibile: «Se sei con Dio si può fare, e io nella mia fragilità mi appoggio sempre prima di tutto a Gesù Cristo», dice con semplicità. Tutto di lei comunica la gratitudine di essere viva e il valore unico della vita di ognuno, ma è la sua storia – che ha raccontato anche di fronte al Congresso degli Stati Uniti – a scuotere chi l’ascolta.
Gianna, ci vuole raccontare della sua nascita?
«Sono nata da un aborto salino. Sono le 6 del mattino del 6 aprile 1977 quando vengo alla luce. Mia madre ha 17 anni e un giorno decide che non mi vuole più. Così va in California in una clinica dove si praticano aborti e chiede l’interruzione di gravidanza. Le praticano lo spietato aborto salino, che inietta nell’utero una soluzione che rende cieco il bambino, lo ustiona e lo fa nascere morto. Dopo 18 ore di immersione in quella soluzione, invece, io nasco viva. E ho una doppia grazia. Quella di essere viva e non cieca e quella di nascere prima delle previste 24 ore dopo l’iniezione per cui il medico che segue mia madre e che le ha praticato l’aborto ha finito il turno. E riescono a salvarmi».
Chi l’ha salvata?
«Mi hanno salvata in tre, principalmente. Il primo, sicuramente, è Gesù Cristo con il suo amore. Poi l’infermiera che, quando sono nata, viva e in anticipo rispetto alle solite 24 ore dopo l’iniezione, ha avuto la prontezza, visto che il medico che aveva firmato la mia pratica di morte non era presente perché aveva finito il turno, di chiamare l’ambulanza e mandarmi all’ospedale. Se quel medico fosse stato presente io non avrei potuto raccontare la mia storia perché il protocollo, fino al 2002, prevedeva in caso di bambini abortiti ma ancora vivi, di soffocarli o lasciarli morire in un angolo. L’infermiera fu molto coraggiosa in quella occasione. E poi la terza persona che mi ha salvato è stata Penny, la mia nonna adottiva che ha creduto che potessi guarire nonostante il parere dei medici e mi ha fatto fare molte ore di fisioterapia e quattro interventi chirurgici. Alla nascita pesavo 900 grammi e secondo gli operatori sanitari non potevo sopravvivere. Dopo un anno dissero che non sarei mai riuscita ad alzare nemmeno la testa, per i gravi danni cerebrali subiti. E invece oggi eccomi qua a difendere la vita».
Ha mai incontrato la sua madre biologica?
«Si, dieci anni fa. Si è presentata alla fine di un incontro dicendomi che era mia madre. Ovviamente sono rimasta scioccata di trovarmela davanti e subito ho iniziato a pregare in cuor mio, poi l’ho guardata negli occhi e le ho detto che ero cristiana evangelica e che la perdonavo. Lei però si è arrabbiata, mi ha detto che non aveva bisogno del mio perdono e ha aggiunto parole molto dure. E allora le ho detto che non le permettevo di parlarmi così e non l’ho mai più rivista, ma non ci tengo ad avere un rapporto con lei, io non le appartengo. Ho avuto la mia madre adottiva e mio padre è stato Dio».
Perché si definisce la «bambina di Dio»?
«Perché io mi sento figlia di Dio. C’è sempre stato lui nei miei momenti di difficoltà come in quelli felici. Io sono viva grazie a Dio e come lui sono stata odiata da quando sono nata. Cercano di zittirmi, mi guardano con indifferenza, ma io continuo a seminare, e credo che la cultura del bene un giorno vincerà. Magari quello che dico non entrerà nei cuori delle persone oggi o domani, ma fra dieci anni potrebbe essere che qualcosa di uno di questi incontri salverà un bambino, lo farà nascere. Questo è il risultato che auspico: che qualcuno grazie alla mia testimonianza passi da una cultura della morte a una cultura della vita. E che chi ha abortito scopra il perdono di Dio, perché il Signore concede il perdono a chi lo chiede e lo vuole incontrare con sincerità».
Che significa per lei essere cristiana?
«Significa sperare, amare e portare il Dio dell’impossibile a quante più persone incontro. Vorrei che qualcuno si sentisse amato dal Signore attraverso di me e che le persone che lo sentono lontano e che io raggiungo negli incontri sappiano che Il Signore c’è, anche nelle situazioni più difficili, quando tutto sembra crollare o sembra finito. Non stancatevi di cercarlo e di chiedere il suo aiuto, anche se non siete credenti, parlategli di voi, chiedetegli aiuto e lui stravolgerà la vostra vita. La mia storia è una testimonianza evidente di questo. Per me essere cristiana significa essere viva, coraggiosa e femminile. Perché sono nata donna e sono fiera di esserlo».
Qual è la tua cosa impossibile per la quale chiedi oggi l’aiuto di Dio?
«Vorrei diventare madre e quindi vorrei incontrare l’uomo giusto che sappia vedermi come una donna con cui fare dei figli, non solo come una persona disabile. Qualcuno che non mi commiseri per la disabilità, o per la mia storia, e che mi ami così come sono. Questa è oggi la mia sfida impossibile con il Signore e sono sicura che al momento giusto anche questa cosa grazie a lui, diverrà possibile».
Fonte www.credere.it/Geraldine Schwarz
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