Papà lo vorrebbe avvocato, ma lui, pur laureandosi in giurisprudenza, non se la sente di esercitare, perché “mi è impossibile domandare soldi a chi ha bisogno del mio patrocinio per avere giustizia”. Da Avellino viene a Moncalieri a fare il militare e nel 1936 entra in polizia, assegnato alla questura di Genova. Però vi resta poco, per colpa del suo parlare schietto e della sua dirittura morale, che lo hanno portato a pubblicamente denunciare l’eccessiva burocratizzazione degli uffici e l’inerzia di alcuni colleghi. Il regime non dimostra di gradire la critica, anche se saggia e indirizzata ad un miglioramento del servizio, e così il coraggioso vice commissario viene mandato al “confine” nel senso letterale del termine, relegandolo a Fiume, città istriana ai confini orientali della Penisola. Qui si vede affidare la responsabilità dell’Ufficio stranieri e, forse per la prima volta, un allontanamento punitivo diventa una provvidenza per tanti. Il giovane funzionario si trova immerso nella variegata umanità che transita in questo crocevia etnico-religioso e che lui accosta con gentilezza, disponibilità e infinita carità. Non sono soltanto doti umane, le sue, o meglio sono qualità congenite maturate alla luce del Vangelo e che cerca di incarnare nella vita di ogni giorno. Al confine italiano, però, premono soprattutto gli ebrei, già perseguitati dalle leggi razziali in vigore nei territori iugoslavi occupati dai nazisti e che guardano all’Italia come ad una via di salvezza. Che tale, però, non è più, quando anche in Italia vengono introdotte le leggi razziali, ed è precisamente a questo punto che la coscienza del vicequestore ha uno scatto di ribellione: “Vogliono farci credere che il cuore sia solo un muscolo e ci vogliono impedire di fare quello che il cuore e la nostra religione ci dettano”, e subito dimostra di saper dare precedenza alla legge di Dio piuttosto che alle disposizioni degli uomini.
Approfittando del suo ruolo chiave in questura, usa la sua fantasia, le sue capacità e le sue conoscenze per salvare dalla deportazione gli ebrei in transito per Fiume: li smista nei campi profughi dell’Italia meridionale, già in mano agli Alleati; li dirotta nella diocesi di Campagna (Salerno), di cui suo zio è vescovo e che, di fatto, diventa il suo più valido collaboratore in quest’opera umanitaria; li sostiene, li sfama e li riveste, fornendo loro documenti falsi o cercando di occultarli in istituti religiosi o presso famiglie amiche. È una ciclopica attività di salvataggio di vite ormai destinate alle camere a gas, per la quale si fida di pochissimi collaboratori, anche se, in realtà, di bocca in bocca gli ebrei si passano la notizia di quel poliziotto tutto carità, che li attende a Fiume per dare loro un mano. Ben cosciente dei pericoli cui va incontro e consapevole che prima o poi, come Cristo, la sua strada incrocerà quella del “suo” Giuda, riesce a salvare, secondo stime approssimative, cinquemila ebrei prima dell’8 settembre 1943, almeno un migliaio dopo. La sua diventa una lucida e appassionata difesa della vita umana, in nome della fede professata apertamente; e per questa, che considera la sua missione, sacrifica qualsiasi progetto di farsi una famiglia, la sua sicurezza personale e anche la possibilità di mettersi in salvo. Mentre tutti, anche il questore, abbandonano Fiume in mano ai nazisti, lui resta al suo posto; non accetta una promozione a Caserta; non varca il confine della Svizzera, come gli sta proponendo l’amico console, perché è cosciente che solo restando dietro la sua scrivania gli sarà possibile salvare altre vite umane. I nazisti, ormai sicuri del suo tradimento, vengono ad arrestarlo e, in base ai documenti trovatigli in casa, lo accusano di intelligenza con il nemico. Condannato a morte, si vede commutare la pena capitale con l’internamento a Dachau, dove arriva a fine ottobre 1944. Quattro mesi dopo, il 10 febbraio, vi muore, a 36 anni, stroncato dalle sevizie, dalla mancanza di cibo e forse dal tifo. Il poliziotto Giovanni Palatucci, “ultimo questore” di Fiume italiana ora è anche candidato alla canonizzazione (il processo è iniziato nel 2002) e tra non molto potremmo venerarlo sugli altari.
Giovanni Palatucci nacque in Irpinia, a Montella (AV), il 31 maggio 1909 da Felice e Angelina Molinari. Dopo una formazione familiare fondata sui valori cristiani della vita – che lo rese sensibile al prossimo ed agli alti ideali – conseguì il diploma liceale a Benevento e successivamente, si laureò in Giurisprudenza a Torino. Superati gli esami da procuratore legale, nonostante il parere contrario del padre che lo avrebbe voluto avvocato nel luogo natio, frequentò a Roma – presso la Scuola Superiore di Polizia – il 14° corso per Vice Commissario di Pubblica Sicurezza. Assegnato inizialmente a Genova, il 15 novembre 1937 fu trasferito alla Questura di Fiume, dove gli fu affidata la direzione dell’Ufficio Stranieri con la qualifica di Commissario. A seguito delle leggi razziali antisemitiche del luglio-novembre 1938, lo videro impegnato nell’aiuto agli Ebrei e a tutti coloro che, a causa dell’occupazione tedesca, si trovavano a transitare dal confine istriano verso luoghi più sicuri. A migliaia furono i perseguitati da lui soccorsi, con ogni stratagemma possibile; in particolare venivano orientati verso il campo di raccolta di Campagna (SA), dove era Vescovo lo zio, Mons. Giuseppe Maria Palatucci. La sua opera si fece ancor più intensa all’indomani dell’Armistizio (8 settembre 1943) con l’occupazione militare tedesca, quando Fiume venne annessa al Terzo Reich. In quel contesto di generale disfacimento politico, il giovane funzionario, divenne un punto di riferimento di umanità e salvezza per tutti i cittadini e particolarmente per i perseguitati politici e razziali.
Nominato Questore Reggente, intensificò l’aiuto, utilizzando la sua autorevolezza istituzionale. Circa seimila furono gli Ebrei ed i perseguitati politici salvati in quegli anni. Malgrado i sospetti della polizia politica del Terzo Reich, fedele al giuramento che aveva segnato il suo ingresso in Polizia e agli insegnamenti umani ricevuti dai familiari, Palatucci rimase al suo posto per continuare la sua preziosa opera, esponendosi all’inevitabile arresto. Arrestato dalla Gestapo il 13 settembre 1944, fu condotto nel carcere di Trieste, dove venne condannato a morte; graziato, con la commutazione della pena, fu poi deportato il 22 settembre 1944 nel campo di sterminio di Dachau (Germania), con matricola 117826. Il 10 febbraio 1945 morì di stenti – da martire – a poche settimane dalla liberazione e fu sepolto in una fossa comune. Giovanni Palatucci é stato commemorato con grandi onori in Israele; nel 1953 gli è stata intitolata una strada nella città di Ramat Gan, con 36 alberi, uno per ciascun anno della sua vita; nel 1955 è stato proclamato Giusto d’Israele e in sua memoria è stata piantata una foresta presso Gerusalemme. Sempre nel 1955 dall’Unione delle Comunità Israelitiche Italiane gli è stata concessa una medaglia d’oro, in segno di gratitudine. In occasione della Festa della Polizia, (Roma, 19 maggio 1995), il Questore Palatucci è stato decorato alla memoria dal Presidente della Repubblica Italiana, Oscar Luigi Scalfaro, con la Medaglia d’Oro al Merito Civile. Il 21 marzo 2000 il Vicariato di Roma ha emesso l’Editto per l’apertura del processo di beatificazione del Servo di Dio Giovanni Palatucci, avvenuta il 09 ottobre 2002. di Gianpiero Pettiti e Filippo Marino
San Giovanni Paolo Il lo ha annoverato tra i martiri del XX secolo. Certamente Giovanni Palatucci, nato a Montella (AV) il 31 maggio 1909, ha testimoniato la sua fede Fino all’estremo sacrificio. A Fiume, prima come responsabile dell’Ufficio stranieri, poi come questore, dal ’39 al ’44 riesce a strappare circa cinquemila ebrei ai campi di sterminio, Alla fine, pur potendosi mettere in salvo, continua la sua opera. Arrestato dai nazisti, muore nei febbraio del 1945 nel lager di Dachau, a soli 36 anni. In una lettera ai genitori dice: «Ho la possibilità di fare un po’ di bene, e i beneficiati da me sono assai riconoscenti. Nel complesso riscontro molte simpatie. Di me non ho altro di speciale da comunicare». Nel 1990 lo Yad Vashem lo insignisce dei titolo di «Giusto tra le nazioni».
di Francesco Rossi
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