“Credo che l’amore sia qualcosa che ti aiuti a guardare, difendere e accompagnare la vita sempre”. Questo è il principio guida per Daniela Frizzele, pedagogista milanese e madre di cinque figli (di cui uno già in cielo), che assieme al marito collabora come volontaria con La Quercia Millenaria, una onlus a sostegno delle gravidanze ad alto rischio e dei feti terminali.
Come genitore che ha dato alla luce un bambino che la medicina oggi definisce “incompatibile con la vita”, ricevendo in cambio il centuplo, la pedagogista è convinta che la risposta alle situazioni di sofferenza stia nella relazione con l’altro, non certo nel troncamento della relazione.
Per questo non può condividere l’idea di chi propone l’eutanasia, perfino sui bambini, come “atto d’amore” (in Italia, sull’onda del recente caso di eutanasia su minore in Belgio, l’idea è stata rilanciata dal quotidiano la Repubblica in un paio di articoli pubblicati a ottobre, di cui uno firmato da Giuliano Pisapia). La Nuova BQ l’ha intervistata.
Dottoressa Frizzele, come madre, pedagogista e volontaria di un’associazione che aiuta i genitori con gravidanze ad alto rischio, che cosa prova al pensiero che oggi qualcuno prospetti addirittura l’eutanasia per bambini?
Io e mio marito abbiamo vissuto l’accoglienza di un bambino malato di anencefalia, considerato “incompatibile con la vita”. Si è trattato del nostro primo figlio, Matteo, che è nato il 4 dicembre del 2001. Così, leggendo parole come quelle di Pisapia su Repubblica, mi sento un po’ smarrita perché credo che oggi, giocando con le parole, si stiano creando grandi confusioni. Innanzitutto, mi sono interrogata sulla parola “figlio”: figlio è persona, che si colloca nella relazione generativa tra un uomo e una donna. La relazione genitore-figlio va letta nel senso dell’accoglienza e della responsabilità senza possesso, quindi non capisco davvero come si possa pensare di porre fine alla vita di un figlio.
Racconti.
Nel 2001 io e mio marito ci sentimmo diagnosticare dalla dottoressa l’anencefalia del nostro bambino: lei ci consigliava l’aborto. Mio marito reagì dicendo “no, qui si tratta di nostro figlio” e glielo dovette ripetere per tre volte che non eravamo d’accordo ad abortire. Lì, il messaggio che tu ricevi è che tuo figlio non è degno di vivere. Ora, la diagnosi medica è un fatto che però non esaurisce il mistero di quel bambino.
Quale mistero?
Lui è nato vivo. E noi abbiamo trovato un’equipe di medici all’Ospedale San Gerardo di Monza che ci hanno accompagnato nella nostra esperienza di grande dolore. Quando è nato Matteo, tante ostetriche e tanti medici sono venuti a salutare mio figlio: lui è vissuto tre ore e loro sono venuti a riconoscere nostro figlio come figlio, come persona. E questo saluto me lo porto nel cuore. Il sostegno di medici e il sostegno reciproco tra me e mio marito, delle nostre famiglie, degli amici, ci hanno permesso di capire che cos’è una scelta di amore. La parola “amore”, in un suo significato etimologico, deriva da a-mors, cioè “senza morte”: credo che l’amore sia qualcosa che ti aiuti a guardare, difendere e accompagnare la vita sempre.
Quelle tre ore di Matteo sono state un dono?
Pensi, noi l’abbiamo chiamato Matteo proprio perché significa “dono di Dio”. Abbiamo fatto questa scelta perché davvero ci siamo chiesti: “Qual è il dono di questo figlio?”. Quelle tre ore – dargli un volto, poterlo tenere in braccio – sono state per noi tutto. Lui respirava a fatica, avevamo paura di vederlo soffrire, ma si spense in modo graduale senza dare prova di sofferenza. L’abbiamo abbracciato, accarezzato, l’abbiamo battezzato e poi l’abbiamo lasciato andare, quando è arrivato il suo momento. Non è che abbiamo deciso noi per la sua vita e questa scelta di amore ci ha lasciato nella pace, in una pace profonda. Dopo di lui sono arrivati altri quattro figli, cioè Samuele, Sara, Francesco ed Elena Maria: è come se questa esperienza d’amore data a Matteo sia ritornata a noi. Anche se breve, la vita ha sempre un significato. Dentro questa maternità e questa paternità – ormai spirituale, perché Matteo non c’è più – siamo impegnati ad accompagnare altri genitori che ricevono una diagnosi di incompatibilità per la vita. Tra l’altro, ci sono casi diagnosticati come “incompatibili con la vita” e che nella realtà non si sono verificati, perché conosciamo diversi bambini che sono venuti alla luce e sono cresciuti.
Che cosa propone?
C’è bisogno di fare rete tra medici, specialisti, neonatologi, ginecologi e genitori in modo da accompagnare queste situazioni: così, la difficoltà, la sofferenza e la morte non le vivi in solitudine. E, anzi, è motivo a volte di sorpresa, di gioia. Ma non di gioia perché va tutto bene, bensì perché queste relazioni ti fanno sentire il cuore caldo. Al gruppo “La Speranza oltre il dolore” ci capita di condividere i commenti ricevuti da parte di alcune persone che non comprendono la scelta di accoglienza dei nostri figli; a volte sono conoscenti o parenti, altre volte medici, assistenti sociali o psicologi e la domanda che ci rivolgono è essenzialmente questa: “Ma che senso ha perpetuare la sofferenza?”. No, non si tratta di questo. Noi non siamo persone che amano la sofferenza, noi siamo mamme e papà che hanno scelto di amare il proprio figlio per la persona che è, anche se è malato, anche se è terminale. È l’amore che ti porta a reggere la sofferenza, perché l’amore è la forza più grande… è più forte della morte stessa: se sei amato, e ami, tu esisti per sempre. E se siamo capaci di questo amore c’è davvero speranza!
Redazione Papaboys (Fonte www.lanuovabq.it/Ermes Dovico)
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