25 dicembre 1963: Paolo VI decide di celebrare la messa di Natale in una parrocchia della periferia romana, San Michele Arcangelo a Pietralata. Nell’omelia spiega ai fedeli: «Sono venuto perché mi hanno detto che a Pietralata non andrebbe forse nessuno di questi che stanno nelle vie del mondo, che sono in vista. Sono a Pietralata perché mi sembra che con voi il Natale sia molto bello e molto vero. Infatti, per chi il Signore è disceso dal cielo? Intanto egli è venuto per mettersi al livello della gente povera, di quelli che richiedono conforto e aiuto; è il fratello di chi è più solo e bisognoso». Parole rimaste nella storia e nel cuore di una comunità che proprio quest’anno, nel presepe, ha voluto ricordare quella giornata speciale riproducendo le vie e le case del quartiere. A parlarci di questa “famiglia” che ancora una volta (nel 1983 accolse anche Giovanni Paolo II) attende la visita di un Papa è il parroco, monsignor Aristide Sana. «Ma non mi chiami monsignore — ci dice sorridendo — altrimenti i miei parrocchiani si mettono a ridere. Mi hanno comunicato che ero “diventato monsignore” quando la parrocchia ha assunto il titolo cardinalizio, ma per tutti sono semplicemente don Aristide».
Sguardo placido e sereno, figlio di un’esperienza sacerdotale che proprio quest’anno celebra il suo cinquantesimo anniversario, don Aristide prova a fare una fotografia della parrocchia che guida da diciassette anni e che, nel pomeriggio di domenica 8 febbraio, riceverà la visita di Papa Francesco: «In un quartiere non semplice, urbanisticamente disomogeneo, con i tanti problemi di una zona di periferia, la parrocchia è un avamposto di speranza che fa dell’accoglienza la sua nota caratteristica».
Quella che don Aristide ama definire una «famiglia molto variegata» è una comunità che affonda le sue radici negli anni Venti del secolo scorso. Fu allora, con la bonifica agraria, che tanti giunsero provenendo dalle campagne laziali. Poco dopo arrivarono anche i trasferimenti forzati in seguito alle demolizioni di via dei Fori imperiali. Mano a mano la campagna veniva erosa da nuclei abitativi per nulla organici. Nel 1938 venne eretta la parrocchia. Qui giunsero anche gli sfollati del bombardamento di San Lorenzo. E qui a varie ondate sono state costruite case popolari tra gli anni Cinquanta e Sessanta. «Ancora oggi si stanno occupando gli spazi rimasti» spiega don Aristide. Il problema è che nulla è stato pensato e pianificato, tutto è scollegato. Il parroco prova a spiegarci, piantina alla mano: il territorio, in pratica, si snoda in lunghezza, attraverso via di Pietralata. I vari nuclei del quartiere si inseriscono nella grande arteria come tanti affluenti indipendenti: sono tutti isolati gli uni dagli altri. Di fatto la parrocchia, è l’unico punto di riferimento che unisce il territorio, qui c’è l’unica piazza del quartiere. Qui, soprattutto, la gente può incontrarsi e sentirsi accolta.
«Da quando sono arrivato — racconta don Aristide — ho fatto dell’accoglienza la mia bussola. Ho evitato la formazione di gruppi particolari: siamo a Roma, chi vuole fare un’esperienza di fede più caratterizzata non avrà difficoltà a trovarla. Qui si vive la comunità parrocchiale, in cui ognuno può sentirsi a casa». Una pastorale molto semplice e diretta, che fa affidamento su quegli incontri inevitabili in una parrocchia: i momenti in cui la gente si avvicina per i sacramenti. Sono occasioni da non sprecare; è lì che le persone possono sentirsi accolte e coinvolte in un progetto.
Il Papa, come di consueto, prima di confessare cinque parrocchiani e di celebrare la messa all’interno della chiesa, saluterà in particolare i malati, le famiglie con i bambini appena battezzati, i bambini del catechismo, il gruppo scout e i sacerdoti della prefettura. Ci spiega il parroco: «Incontrerà anche una ventina di persone senza fissa dimora: una rappresentanza di quella gente disperata, stranieri e italiani, che gravita nel nostro quartiere e che da noi trova un po’ di assistenza». Il quartiere esprime una realtà non certo semplice: la crisi si sente pesantemente, la disoccupazione soffoca la speranza di futuro, non mancano le problematiche legate alla microcriminalità e alla droga. Ma alla domanda su quale sia il problema più urgente il parroco risponde: «il tempo». Le persone non hanno tempo: mille preoccupazioni, orari che si incastrano, «e il contatto con la parola di Dio, con la preghiera, con il silenzio è molto difficile». Una volta almeno, quando il confronto politico era molto più acceso e il quartiere era una sorta di roccaforte comunista, c’era impegno, coinvolgimento, anche scontro, ma comunque voglia di reagire, di cercare soluzioni, volontà di proporre: «Ora la gente si chiude in se stessa, nei suoi problemi e tende a non voler sapere nulla. Si vive alla giornata e c’è molta solitudine». In questa solitudine si innestano i disagi di molte famiglie che neanche riescono a formarsi: una delle maggiori assistenze a cui è chiamata la parrocchia è quella data a ragazze e donne abbandonate con i figli dai loro mariti o dai loro compagni. «Sono tante, sono sempre di più…».
Ecco perché la parrocchia è un avamposto di speranza. È occasione di incontro, di confronto, di nutrire il futuro con l’idea «non solo di sopravvivere, di tirare a campare, ma di vivere». Lo è soprattutto la domenica, spazio privilegiato in cui quel tempo che sembra sempre scivolare via si dilata un po’. «In tanta disgregazione — dice don Aristide con un accento di fierezza — per fortuna c’è la messa domenicale a fare da collante. Vengono le famiglie intere e noi le invitiamo a rimanere per pranzo, ad approfittare della parrocchia per poter stare insieme, per avere occasioni di scambio». Serve un capillare lavoro di dialogo. Di ascolto e di dialogo. «È un lavoro lento, lento, lento» commenta il parroco. Che porta però anche i suoi frutti: il gruppo scout (cinquant’anni di vita) si è molto rafforzato e s’impegna concretamente («Li ho avvisati subito: gli scout non servono solo per le processioni!»); i ragazzi dopo la cresima cominciano a restare, a sentirsi coinvolti in un discorso comunitario; i giovani che vengono per prepararsi al matrimonio chiedono sempre più un vero e proprio cammino di fede. Tutto questo, don Aristide ne è sicuro, «riesce se riusciamo a dialogare con le famiglie».
Alimentare la speranza. In questo si impegna la parrocchia. Questo ci si aspetta dalla visita di Papa Francesco. La gente, circa ottomila famiglie, lo aspetta fiduciosa e con affetto. Qui i sacerdoti — oltre a don Aristide c’è il viceparroco, don Massimo Cautero, e due sacerdoti provenienti da Bogotà, diocesi con la quale la parrocchia è gemellata: don Nicolás Francisco Garzón Reyes e don Mauricio Andrés Fontalvo Florian — vivono a stretto contatto con la gente e i parrocchiani apprezzano molto lo stile immediato e diretto del Pontefice. «Mi dicono: ci sembra un parroco». I problemi rimarranno, dice don Aristide, «ma la parola di speranza che porterà il Papa darà senz’altro i suoi frutti». E i parrocchiani ringrazieranno Francesco con un dono semplice e speciale, due casse di bulbi di fiori primaverili da piantare nei Giardini vaticani: «Così avrà qualcosa di noi che lo accompagnerà nel tempo».
di Maurizio Fontana per L’Osservatore Romano, 8 febbraio 2015