Accade a Be’erSheva, nella comunità cattolica di espressione ebraica, guidata dal parroco don Gioele Salvaterra: “La gente è molto addolorata e sconvolta dalle tante vittime sui due fronti. Ieri sera, nella messa, li abbiamo ricordati e abbiamo pregato per tutti coloro che soffrono”. Per Salma e Habib, fratelli adolescenti, questa è già la terza guerra che vivono negli ultimi sei anni
È stata una domenica di sangue quella che si è consumata ieri, 20 luglio, nella Striscia di Gaza, dove sono morte oltre 120 persone, di cui 17 bambini. Dopo 14 giorni l’operazione “Protective Edge” (Margine protettivo) ha fatto finora più di 500 vittime palestinesi in larga parte civili, 18 quelle israeliane, in maggioranza soldati. I feriti circa 3200, oltre 83mila gli sfollati gazawi che affollano le 60 scuole messe a disposizione dall’agenzia Onu per i Rifugiati (Unrwa). Nella notte il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha chiesto la “fine immediata delle ostilità”. All’avanzata di terra dell’esercito israeliano si contrappone la pioggia di razzi – ieri circa 100 – di Hamas verso molte città del centro e del sud di Israele, tra cui Dimona, Ashqelon, Ashdod, Be’er Sheva. Il suono delle sirene di allarme ha portato centinaia di migliaia di israeliani a trovare riparo nei rifugi mentre nel cielo si udivano forti esplosioni. Nella sola Tel Aviv si sono uditi, stamattina, quattro boati probabilmente dovuti all’intercettamento dei razzi da parte del sistema di difesa aereo israeliano Iron Dome. Nelle città israeliane più vicine alla Striscia è da qualche ora in vigore lo stato di allerta. Gli abitanti sono invitati a non uscire di casa, una procedura adottata in caso di sospette incursioni di palestinesi della Striscia.
Sono tanti gli israeliani che in questi giorni pregano per la fine delle ostilità. Da Haifa la locale comunità cattolica di espressione ebraica ha realizzato video clip e composto un canto per chiedere la pace. A Be’er Sheva, città tra le più colpite dalla pioggia di razzi di Hamas, israeliani di fede cattolica partecipano, da cittadini, tutto il dolore delle guerra e piangono i morti di una lista nera che si allunga ora dopo ora. Dice al Sir il parroco, don Gioele Salvaterra: “La gente è molto addolorata e sconvolta dalle tante vittime sui due fronti. Ieri sera, nella messa, li abbiamo ricordati ed abbiamo pregato per tutti coloro che soffrono. Per quanto riguarda i soldati israeliani c’è una certa preoccupazione, praticamente ognuno in Israele conosce qualcuno che è in servizio nella zona di Gaza (sia militari di leva che riservisti). Quello che possiamo fare è pregare perché cessino le violenze ed anche i soldati possano tornare a casa sani e salvi”. Molte famiglie di Be’er Sheva, inoltre, sono di cristiani arabi della Galilea che vivono qui e molti di loro, dopo la prima settimana di guerra, si sono rifugiati nei villaggi di origine al nord, mentre mariti e padri sono rimasti in città a lavorare.
Qualcuno ha voglia di raccontare come si vive sotto la minaccia di razzi. Già nei primi giorni di guerra Salma e Habib, fratelli adolescenti, dicevano “non abbiamo voglia di un’altra guerra”, ricordando che i progetti per le vacanze estive appena cominciate erano ben diversi. Per loro è la terza guerra che vivono negli ultimi sei anni nel sud del Paese, senza considerare i lanci di missili occasionali tra un’operazione militare e l’altra. Anche i loro genitori sono molto preoccupati per quanto accade, soprattutto quando i figli sono fuori di casa, per strada: con telefonate ed sms si informano sulle loro condizioni. In generale, spiega ancora il parroco, “i ragazzi hanno bisogno di raccontare ciò che vivono tra le emozioni di quella che all’inizio pare un’avventura e la paura: la sirena che suona, la corsa al rifugio, dove si incontrano i vicini di casa, il botto del missile intercettato o quello ancora più forte del missile che cade nelle vicinanze”. Ai racconti di oggi si uniscono quelli del passato: “una volta un missile è caduto vicino alla mia scuola” ricorda Katy. Anche i più piccoli risentono della situazione ed i suono delle sirene unito all’agitazione dei genitori porta i bambini a scoppi di pianti e urla. “Sono stata alcuni giorni a trovare la mia famiglia in Galilea – racconta Marian – e mia figlia di tre anni, raccontava a tutti quello che aveva vissuto nei giorni precedenti”. Nella comunità cattolica di Be’er Sheva ci sono anche diversi migranti dall’India e dalle Filippine, che lavorano come badanti. In tempo di guerra il loro lavoro è ancora più duro, dovendo trovare un riparo sicuro per i loro malati. “La signora che assisto – racconta una di loro – ha paura e non vuole che esca di casa per fare la spesa o venire a messa”. Oltre ai lavoratori stranieri ci sono anche alcuni richiedenti asilo, per i quali questi giorni difficili richiamano alla mente le guerre da cui sono fuggiti in Africa. La comunità continua però a radunarsi per la preghiera, che già da diversi giorni, si tiene in una zona riparata della casa e non nella cappella. Al centro della preghiera di tutti è la supplica per la pace, per il bene di tutti. “Le parabole che ascoltiamo in queste domeniche – dice don Salvaterra – invitano tutti ad essere speranzosi e fiduciosi che il piccolo seme di pace, piantato nella recente visita del Papa e nella seguente preghiera con i leader dei due popoli, possa portare frutto”. Un desiderio di pace e di giustizia condiviso: in un incontro di preghiera per la pace organizzato dalla sinagoga del movimento ebraico conservativo a Be’er Sheva, si sono riuniti, nei giorni scorsi, ebrei, musulmani ed un gruppo della comunità cattolica. L’incontro “ha mostrato la gioia di tutti nel conoscersi e confrontarsi ed il sogno comune di pace per questa terra, santa per le tre religioni”.
Di Daniele Rocchi per Agensir