Categorie: Italiae et Ecclesia

I giorni di Eluana scolpiti nella coscienza

5 ANNI DOPO – Due dati oggettivi di grande significato: né il Parlamento è riuscito a raggiungere un accordo per una legge che regoli il fine vita, né si è presentata un altro caso Englaro. Purtroppo è trascorsa in sordina la quarta Giornata nazionale degli stati vegetativi: nessun convegno per fare il punto sulla ricerca, nessun momento istituzionale, poche iniziative singole e territoriali

Sono passati cinque anni dalla morte di Eluana Englaro (il 9 febbraio 2009) e la quarta Giornata nazionale degli stati vegetativi, istituita per ricordare che nessun disabile, per quanto grave, può essere trasformato in malato terminale nello spazio di una sentenza, è trascorsa in sordina. Nessun convegno per fare il punto sulla ricerca, nessun momento istituzionale, poche iniziative singole e territoriali.
Il caso Englaro, che tra il 2008 e il 2009 ha diviso il Paese per molti mesi, che ha occupato le pagine dei giornali e le trasmissioni tv, che ha provocato un dibattito politico di comprensibile durezza, non ha avuto un seguito. In cinque anni né il Parlamento è riuscito a raggiungere un accordo per una legge che regolasse il fine vita, né si è presentata un’altra Eluana. Due dati oggettivi di grande significato. Sono molte purtroppo le famiglie che si trovano a confrontarsi ogni giorno con una situazione così complessa e impegnativa qual è l’assistenza di una persona in condizioni di disturbo prolungato di coscienza. Un impegno continuo, totalizzante, svolto nell’anonimato e nell’amore, in attesa di un segno: piccolo o grande, non importa. Quando, all’indomani della sentenza che sanciva l’interruzione dell’alimentazione e dell’idratazione per la ragazza in coma, venne lanciato un appello straordinario per salvarla, la risposta fu enorme. Risposero in migliaia, da tutto il mondo, persone comuni e nomi noti, testimoniando un flusso immenso, continuo e inarrestabile di affetto per una giovane sconosciuta ma immediatamente percepita come figlia. La situazione era così avvertita che spesso l’adesione era accompagnata da un messaggio: addolorato, riguardoso, tenue. Perché nel Dna degli esseri umani c’è la cura, non l’abbandono.
Di questo si deve parlare ancora oggi: di vita, non di eutanasia. Di vivere, non, con termine ingrato, di vegetare. Le persone che attraversano uno stato di apparente non consapevolezza di sé sono ben vive e hanno pieno diritto e dignità di vivere come chiunque altro. E hanno bisogno delle loro famiglie, che, a loro volta, hanno bisogno di aiuto, di risorse, di non essere lasciate sole. Ma per fare questo è necessario uno sforzo in più da parte dello Stato, che non può limitarsi a generici impegni senza poi trovare fondi e stanziamenti per un’assistenza integrata di qualità e per sostenere i centri di riabilitazione e ricerca. Già, la ricerca, l’unica via percorribile.
Non esistono farmaci in grado di “curare” questa particolarissima condizione, si può solo cercare di studiare i meccanismi cerebrali per riuscire a capire dov’è il punto di contatto con chi sente ma non può reagire. Eppure, secondo i dati forniti da Rita Formisano, Direttore dell’Unità post-coma della Fondazione Santa Lucia, tra i 291 progetti di ricerca finanziati dal ministero della salute per il bando 2011-2012 giovani ricercatori e ricerca finalizzata, solo 2 riguardano i disturbi della coscienza: 1 presentato dalla Regione Lombardia e 1 dalla regione Toscana. La fanno da padrone altri big killer della nostra epoca: l’oncologia, le infezioni, il cardiovascolare, la demenza, il morbo di Parkinson, la sclerosi multipla. La concorrenza è vasta e tutta di pari livello, ma non si può invocare il dissesto finanziario della sanità per indurre l’ennesima guerra tra poveri, altrimenti si arriverà a chiedere di compiere scelte inumane. Chi volete che sia curato? Chi pensate possa essere abbandonato? A queste domande deve esserci una risposta sola, unanime e, soprattutto, previa: nessuno deve essere lasciato indietro, nessuno si salva da solo.

Emanuela Vinai per Agenzia Sir

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