Categorie: Familia et Mens

I martiri dell’indissolubilità del matrimonio

LO SAPEVATE? Anche l’indissolubilità del matrimonio ha i suoi martiri, che la santa Chiesa di Dio celebra ogni anno col fasto dovuto ai suoi figli più illustri. Il 22 giugno, nel martirologio romano si legge: “Santi Giovanni Fisher, vescovo, e Tommaso Moro, martiri, che, essendosi opposti al re Enrico VIII nella controversia sul suo divorzio e sul primato del Romano Pontefice, furono rinchiusi nella Torre di Londra in Inghilterra. 

Giovanni Fisher, vescovo di Rochester, uomo insigne per cultura e dignità di vita, in questo giorno fu decapitato per ordine del re stesso davanti al carcere; Tommaso More, padre di famiglia di vita integerrima e gran cancelliere, per la sua fedeltà alla Chiesa cattolica il 6 luglio si unì nel martirio al venerabile presule. San Giovanni Fisher e san Tommaso Moro furono decapitati per aver difeso l’indissolubilità del matrimonio contro il divorzio di Enrico VIII da Caterina d’Aragona. In tal modo rimasero fedeli al papa come a capo supremo della Chiesa, negando il giuramento di fedeltà al re Enrico VIII che si era proclamato “Capo supremo della Chiesa d’Inghilterra”. In un momento storico come quello attuale in cui par si voglia mettere in discussione anche l’indissolubilità del matrimonio, occorre rispolverare il passato e meditare a fondo sullo scisma d’Inghilterra, originato da un divorzio, e sul sangue dei suoi martiri, che ancor oggi continua a proclamare che il sacramento del matrimonio è di diritto divino. La questione dell’indissolubilità del matrimonio si pose nel 1525 quando il re d’Inghilterra Enrico VIII, non avendo avuto eredi maschi da Caterina d’Aragona, si preoccupò della sua discendenza. Enrico era ancora cattolico al punto di aver meritato dal papa Leone X, nel 1521, il titolo di “defensor fidei”

per la sua apologia dei sacramenti della Chiesa cattolica contro l’eresia luterana, titolo che – con ironica incongruenza – rimane coniato tuttora sulle monete inglesi. Poiché Caterina era la vedova di suo fratello, Enrico pensò di poter metter in dubbio la validità del matrimonio. La storia mostrerà che – più che la preoccupazione per il trono – fu la sua passione per Anna Bolena, per altro cortigiana della moglie, che lo condusse al divorzio da Caterina e al susseguente scisma. Infatti, quando papa Clemente VII si rifiutò di annullare il matrimonio, Enrico gli disobbedì e si proclamò “Capo Supremo della Chiesa d’Inghilterra”, incorrendo nella scomunica. Ecco il succedersi degli eventi.

Nel 1527 il re aveva consultato – tra gli altri – Giovanni Fisher, vescovo di Rochester, circa lo stato del suo matrimonio con Caterina d’Aragona che Enrico riteneva essere invalido. Fisher assicurò il re che non vi era il minimo dubbio sulla validità del matrimonio e che era pronto a difendere tale asserto davanti a chiunque. Per descrivere l’atteggiamento di Giovanni Fisher, il segretario del cardinal Campeggio, legato pontificio, nel 1529 così scrisse di lui: “Per non mettere in pericolo la sua anima, e per non essere sleale col re o mancare al dovere verso la verità in una materia così importante, egli dichiarò, affermò e dimostrò con ragioni probanti che il matrimonio del re e della regina non poteva essere sciolto da nessun potere umano o divino e per questo era disposto a dare la vita”. Nel 1525, il vescovo di Rochester aveva scritto: “Una riflessione che mi colpisce profondamente circa il sacramento del matrimonio è il martirio di san Giovanni Battista, che morì per aver rimproverato la violazione del matrimonio. C’erano crimini in apparenza molto più gravi per la cui condanna il Battista poteva esser giustiziato, ma non c’era crimine più adatto dell’adulterio che potesse causare lo spargimento di sangue dell’amico dello sposo, poiché la violazione del matrimonio non è un insulto di poco consto a Colui che è lo Sposo per antonomasia”. A quel tempo, il problema del divorzio del re e della regina non era ancora stato sollevato. Ma le circostanze della morte di Fisher lo avvicineranno non poco alla sorte del Battista. Entrambi imprigionati, entrambi decapitati, entrambi vittime di donne impure. Ma ciò che Erode fece a malincuore, Enrico VIII compì con piena e crudele deliberazione.

Giovanni Fisher scrisse diversi libri in difesa di Caterina. I vescovi, che temevano l’ira del re – indignatio regis mors est, solevano dire –, lo invitarono a ritrattare, ma invano. Egli non poteva negare ciò che sapeva essere la verità. La situazione, intanto, lungi dal sedarsi diveniva sempre più scottante. Il re, con le sue manie dittatoriali, non aveva alcuna intenzione di cedere. Roma aveva inviato i suoi legati per risolvere la complessa vicenda. Il clero inglese – salvo il vescovo di Rochester – era tristemente compatto nella resa, ossia nella desistenza all’autorità del re che finì col proclamarsi “Capo supremo della Chiesa d’Inghilterra”,

atto, questo, reso possibile proprio dalla capitolazione dei vescovi con quella che è passata alla storia come la “sottomissione del Clero” del 15 maggio 1532. Il giorno dopo, Tommaso Moro, fino a quel momento gran cancelliere d’Inghilterra, rassegnò le sue dimissioni. Piuttosto che scendere a compromessi, preferì ritirarsi. Nel 1533 Enrico sposò Anna Bolena e nel 1534, attraverso il cosiddetto “Atto di Supremazia”, si proclamò “capo supremo sulla terra della Chiesa d’Inghilterra”. Tutti i vescovi prestarono il loro giuramento sulla supremazia del re in campo religioso tranne uno, Giovanni Fisher, il quale fu subito imprigionato nella torre di Londra, dove, durante i lunghi mesi di cattività, scrisse tre opere, due in inglese (A spiritual consolation e The ways of perfect religion) ed una in latino sulla necessità della preghiera. Nel medesimo giorno, il 13 aprile del 1534, venne fatto arrestare anche Tommaso Moro.

Durante la prigionia di Giovanni Fisher e Tommaso Moro (aprile 1534-giugno 1935), Enrico VIII proseguì con tenacia l’organizzazione d’una chiesa nazionale indipendente da Roma. Il re tentò di conquistare Giovanni Fisher alla sua causa attraverso la mediazione di alcuni vescovi che lo visitarono nella sua prigione. Durante uno di questi colloqui, Giovanni Fisher esortò i presuli ad essere uniti “nel reprimere l’intrusione violenta ed illegale fatta ogni giorno contro la comune madre, la Chiesa di Cristo” piuttosto che nel promuoverla. Fu quella l’occasione per pronunciare il suo storico giudizio sui suoi fratelli nell’episcopato: “La fortezza (ossia la Chiesa, ndt) è tradita da coloro stessi che dovrebbero difenderla!”. Il 7 maggio il re inviò uno dei suoi consiglieri per tentare ancora una volta di piegare Fisher al compromesso. Il santo Vescovo ribadì senza mezzi termini che “secondo la legge di Dio, il re non è né può essere il Capo supremo della Chiesa d’Inghilterra”. Enrico non aveva bisogno d’ulteriori prove, e quando papa Paolo III – nella speranza di salvare la vita al vescovo di Rochester – lo nominò cardinale di Santa Romana Chiesa, Enrico VIII, alludendo all’imminente decapitazione del Santo, disse che il Sovrano Pontefice poteva ben inviare la berretta rossa, ma questa non avrebbe trovato più la testa su cui posarsi.

La sentenza venne eseguita alle 10 del 22 giugno 1535 nella Torre di Londra: la sua testa rimase esposta all’ingresso del ponte di Londra fino al 6 luglio, quando venne gettata nel Tamigi e sostituita da quella di Tommaso Moro, che nella sua autodifesa, dopo la condanna a morte, disse che la vera causa della sua accusa di tradimento era stato il rifiuto di accettare l’annullamento del matrimonio di Enrico con Caterina. Prima di morire, mentre nella torre di Londra Fisher meditava sull’incredibile cambiamento di scena avvenuto in Inghilterra negli ultimi 10 anni. “Guai a noi – scrisse nel suo libro sulla necessità della preghiera – che siamo nati in questi tempi maledetti, tempi – e lo dico piangendo – in cui chiunque abbia il minimo zelo per la gloria di Dio [… ] sarà mosso al pianto vedendo che tutto va alla rovescia, il bell’ordine delle virtù è capovolto, la luce spendente della vita è estinta, e della Chiesa non è rimasto nulla se non palese iniquità e falsa santità. La luce del buon esempio è spenta in coloro che dovrebbero brillare come lucerne in tutto il mondo […]. Purtroppo da loro non viene alcuna luce, ma solo tenebre oscure e inganno pestilenziale per cui innumerevoli anime si perdono”. Queste parole erano indirizzate anzitutto ai vescovi che, mancando gravemente al loro dovere di pascere il gregge di Cristo, invece di opporsi, con l’esempio e la predicazione, alla tirannia di Enrico, avevano tristemente cooperato all’apostasia con il loro silenzio colpevole.

Di Cristiana de Magistris

 

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